Corriere della Sera - La Lettura
In viaggio con papà. Ma tra gli iceberg
Un figlio e un padre distanti da anni si ritrovano per portare una barca dall’Europa al Canada: non una resa dei conti ma una presa di coscienza ne «Il passaggio» di Pietro Grossi
Con Il passaggio Pietro Grossi affronta direttamente e pienamente un tema spesso presente, sia pur sotto varie forme e però in continuo crescendo, nelle sue opere. Mi riferisco al tema del viaggio, affacciatosi nel racconto La scimmia della raccolta Pugni come desiderio per l’Australia; un desiderio fattosi fantasticherie su viaggi mai realizzati nell’Acchito, che Sofia rinarra su quaderni accumulati in segreto negli anni. Viaggi concretizzati, in una atmosfera da «risveglio alla vita», sia pur segnata da vicende dolorose, nel romanzo Incanto, si tratti di quelli verso il Mugello in sella a una vespa, o degli spostamenti a Glasgow, Princeton e New York, e però in un clima a un certo punto da «resa dei conti», quasi a proporsi quale snodo per questo Passaggio, dopo la pausa felicemente interlocutoria di L’uomo nell’armadio e altri due racconti che non capisco del 2015.
Un titolo, Il passaggio, bivalente; potendolo ben leggere nel versante più concretamente narrativo dell’attraversamento dell’Oceano Atlantico per portare il cutter Katrina da Upernavik, in Groenlandia, al Canada, ricalcando il mitico Passaggio a Nord-Ovest; e in quello più traslato che vede nel «passaggio» un ricongiungimento, lo stabilire un legame, un ritrovarsi, in questo caso tra un padre e un figlio da anni separati da rapporti rimasti irrisolti, e questo nel momento in cui quel figlio sta vivendo a sua volta l’esperienza della paternità.
Perché il passato aveva visto padre e figlio trascorrere molto tempo insieme in barca; sino a una traumatica rottura che aveva cambiato la vita del ragazzo, ormai radicatosi in una Londra nella quale lavora in un prestigioso studio di architettura, e dove si è costruito una famiglia con Francesca e i gemelli Alessandro e Giulia. Una rottura che aveva anche conosciuto momenti di incontri, sempre però naufragati per l’affacciarsi nel comportamento del padre di una «bestia» interiore che lo rendeva scostante.
Un padre, Fabio, dalla «vita straordinaria», fotografo di fama internazionale, dalla «selvaggia sensibilità», dal «corpo sbilenco», «inadeguato all’impresa della sua vita», che il figlio Carlo definisce ora «bizzarro individuo» e ora persino «pazzo»; un padre che da anni ha abbandonato la famiglia, senza però che questo abbia comportato una vera separazione, per di più in un legame mai burocratizzato da un matrimonio, per volere di una madre che quella «bestia» interiore aveva saputo scorgere, e che comunque non aveva smesso di amarlo.
Sinché, a tredici anni di distanza dalla rottura con quel padre e a sette da quando egli stesso ha smesso di navigare, a Carlo giunge per telefono dal genitore questa richiesta di aiuto per portare in Canada Katrina. Richiesta che Carlo, pur intimamente cosciente che una risposta positiva può significare mettere un punto fermo (quale che sia) a quel rapporto, esita ad accettare, cedendo poi solo sulla spinta di moglie, madre e sorella, e riuscendo comunque di suo a «disprezzare la paura» che gli si frapponeva, cogliendo il tempo giusto per «fare i conti con l’essere un padre e non più un figlio, con la distaccata consapevolezza di trattare chi mi aveva messo al mondo per ciò che era» e che purtroppo «non aveva mai capito che me n’ero andato proprio per non abbandonarlo».
È su questo binario che si muove il romanzo: un binario aperto però a molti scambi, come spesso accade nella narrativa di Grossi, dove il presente si apre a molti squarci e flashback, nel corso dei quali Carlo ripercorre ogni momento di quel passato rapporto all’insegna della sgradevolezza paterna, qui gestiti in un trasbordare e sfumare quanto mai morbido e armonico dal presente al passato e viceversa. Il romanzo viene allora ad assumere, pur in un andamento narrativo ovviamente non dimentico dell’avventura tra quei «mostri bianchi» che «vedevo stiracchiarsi, girarsi sulla schiena, raccattare e sbattere via come una coccinella la nostra barca d’acciaio di venti tonnellate» o balene che rischiano di affondarla — e richiami a Conrad, Hemingway e Melville non mancano —, una struttura an- che da «teatro da camera», recitato su una barca che vive nel silenzio di terre popolate da sparuti Inuit, circondata da una natura costantemente personificata; e con un Carlo che gradualmente legge in ogni gesto del padre «qualcosa di definitivo che non gli riconoscevo e che non ero in grado di comprendere», ma soprattutto a intuire che «fosse abitato da un grosso e sgradevole animale, e lo avevo sempre silenziosamente accusato di non fare nulla per addomesticarlo», acquisito «per la prima volta un senso di pace e sicurezza». Ed è una autentica epifania il drammatico momento in cui Carlo finalmente vede «intera e nuda» la bestia con cui combatteva: «Quella bestia che lì in mezzo ai mari gelati aveva contribuito a salvare la vita a noi, aveva fracassato l’esistenza a lui».
Un romanzo di presa di coscienza più che di formazione, ambientato in un’atmosfera anche linguisticamente sospesa, cadenzata da un minimalismo descrittivo di azioni, situazioni e ambienti nel quale la scelta del dettaglio è funzionale alla resa di sfumature degli atti dei singoli personaggi (finemente lavorati anche nei secondari) e delle relative reazioni.