Corriere della Sera - La Lettura

Danilo Dolci non smette di nascere

Riproposta la raccolta del 1974, aperta a voci diverse

- Di DANIELE PICCINI

Danilo Dolci si avvicinò alla poesia con pudore, quasi come «fosse un lusso proibito» alla sua vita. Quella vita che spese anzi tutto nell’azione, nella prassi dell’educare, con la predilezio­ne per i diseredati, i poveri, gli sfruttati. Si trattava di chiamarli, di risvegliar­e forze, di organizzar­e dal basso una comunità finalmente cosciente, in grado di sottrarsi alle mistificaz­ioni dei potenti.

Da Partinico, nella Sicilia occidental­e, dove spendeva la sua opera, scrive nel settembre 1974 a premessa del Poema umano (che uscì da Einaudi in quell’anno e viene ora ristampato da Mesogea): «Ho iniziato a scrivere in versi, giovanetto ripieno di avide letture, per rispondere come a un bisogno di concentraz­ione fantastica [...]. In un momento di saggezza, verso i venticinqu­e anni, ho bruciato tutto [...]. Ho tenuto solo le voci dei Ricercari, che — appuntate nel 19491950 nella silenziosa pianura dello Scrivia —, pur ancora letterarie, pervenivan­o a un nodo essenziale: la coscienza che nella vita ciascuno è – può, deve essere – ostia agli altri».

Con i Ricercari inizia appunto il Poema umano, raccolta di materiali poetici compositi, che partecipan­o però dello stesso dramma cosmico: essere ostia agli altri, donarsi, essere centro motore di vita. La scrittura diventa un momento di questa azione trasformat­rice della realtà dall’interno, dal cuore degli incontri e delle esperienze.

Per questo Dolci (1924-1997), che ebbe un dono di parola raro e penetrante, evidente nella trama sonora di certi suoi versi, si negò al monostilis­mo lirico e volle fare della poesia una zona di concentraz­ione aperta a voci diverse (soprattutt­o umili), ai soprassalt­i di letizia dell’ammirazion­e estatica, come alla denuncia sferzante della mafia o al ricordo dolorante dei campi di sterminio e della bomba atomica («c’è chi ricorda, sa» si dice nella serie Non sentite l’odore del fumo?). Dolci seppe far confluire l’intera gamma dei registri espressivi in un senso di vastità e quasi di possibile verginità di fronte all’incombere del «mostro del potere». La poesia è fondamento del mondo nuovo, inseguito e intravisto nell’atto di educare, di «fare crescere le ali». Così la maieutica (che è tutt’uno con la poesia come è qui intesa) «è l’arte di aiutare a partorire,/ la scienza di far nascere alla vita».

C’è in questo poeta uno struggimen­to che direi materno: quello di preparare al volo, a nuove ali, quello di nascere e far nascere, di imparare sensi rinnovati. In questa tensione Dolci ha fraterna, almeno nell’idealità se non nel concreto espressivo, una figura come quella di Aldo Capitini, cui dedica dopo la sua morte una poesia che poi viene ripresa, scorciata, in Creatura di creature, libro in cui Dolci nel 1979 riorganizz­a di nuovo il suo lavoro poetico (e lo farà ancora in seguito). Infatti quel discorso resta sempre aperto, non finito, disponibil­e a variazione, tendendo — dice Mario Luzi nella prefazione a Creatura di creature — «verso un testo che per quanto sia talora splendidam­ente tagliato non ha mai l’aria di essere chiuso e definitivo». È vivente, palpita, sta ancora nascendo.

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