Corriere della Sera - La Lettura

L’ultima notte di Ariosto con Orlando

Il paladino e gli altri personaggi al capezzale del poeta che li creò Marco Betta ne fa un’opera: «Un elettrocar­diogramma in musica»

- di GIAN MARIO BENZING

Il librettist­a Dario Oliveri ha ricombinat­o versi originali affiancand­oli a citazioni da Borges, Calvino ed Erasmo: «Ho applicato la tecnica un po’ trasgressi­va del taglia e incolla». Nella partitura passaggi dissonanti e altri soavi. Con riferiment­i alle tradizioni dei cantastori­e e dei pupi: un intreccio di sogni

Siamo lì, al suo fianco, nel suo studio, in una sera d’estate del 1533: Ludovico Ariosto, vecchio, morente, sta sognando «un sogno già sognato», o forse il «sogno che nessuno sogna più», come di lui scrisse Borges. È inquieto, si sveglia, si assopisce di nuovo. Davanti a lui, come fantasmi, più vivi del vero, appaiono i suoi personaggi-chiave, Angelica in fuga, poi Angelica che abbraccia Medoro, Orlando cieco d’ira, Astolfo; infine, tutti insieme. E Ariosto li contempla, incredulo, per la prima e l’ultima volta.

Tra la vita e la morte, in un sottile incrocio di sogni letterari, si svolge così Notte per me luminosa, la nuova opera del compositor­e siciliano Marco Betta, su testi di Dario Oliveri, in scena da dicembre a Modena, per il quinto centenario dell’Orlando furioso. Musica e parola generano qui un gioco di diffrazion­i in cui la poesia di Ariosto si frammenta e si trasforma, al riverbero di molte altre voci poetiche, tratte da epoche e stili lontani. «È un viaggio letterario — spiega Oliveri a “la Lettura” — ma anche biografico, nel sentimento di un uomo che avverte la fine del proprio tempo e, tra veglia e sonno, ricorda l’infanzia, i libri che ha letto e scritto, come alla ricapitola­zione di un’esistenza».

Il testo di Oliveri si struttura su vari piani e con varie tecniche. Il poeta parla nel linguaggio della nostra contempora­neità; brevi interludi poetici, i Madrigali, attingono ad Ariosto y los Árabes di Borges, a Erasmo e ai Sonetti dell’Ariosto stesso; Astolfo riecheggia Il castello dei destini incrociati di Calvino, mentre il titolo dell’opera cita Properzio ( Elegie, II, 15, 1: « O me felicem! o nox mihi candida! »).

I rinvii all’Orlando furioso sono più diretti nei dialoghi e nelle arie dei quattro personaggi, «apparizion­i che si rivolgono al loro inventore attraverso i suoi stessi versi, ma in una versione ricomposta». Spesso passando dalla terza alla prima persona. Esempio: Angelica canta a Medoro: «Quando ti vidi languir ferito/ assai vicino a morte...», là dove il poema (XIX,20) recita: «Quando Angelica vide il giovinetto/ languir ferito, assai vicino a morte»...

«A un testo sacro della letteratur­a italiana — continua Oliveri — ho applicato, ispirandom­i a David Bowie, la tecnica un po’ trasgressi­va del cut up o découpage ». Liberament­e, lo scrittore ricompone frammenti del poema, variando la lunghezza delle stringhe di testo, «dalla singola parola a coppie di frasi»: segmenti più brevi, ad esempio, nella scena della pazzia di Orlando, come segno di convulsa dissociazi­one; più lunghi, nel duetto Angelica-Medoro, «per dare un senso di maggiore distension­e e lirismo». Angelica in fuga, addirittur­a, innesta una nell’altra varie ottave del Canto I: «Selve spaventose e scure,/ lochi inabitati, ermi e selvaggi ( in origine: 33,1-2)/ in India, in Media, in Tartaria ( 5,3, detto di Orlando)/ arbitrio di fortuna ( 23,5 detto di Rinaldo e Ferraù)/ ad ogni ombra veduta o in monte o in valle ( 33,7, detto di Angelica)/ s’avea quel re fedel sopra ogni amante ( 50,8, detto di Sacripante) ».

Su questa varietà di registri, la musica di Marco Betta stende una sua propria costellazi­one di segni. Leggendo la partitura in anteprima si avverte come una sacralità statica e sognante, dai tratti ricorsivi prossimi al minimalism­o, un ductus melodico salmo- diante, a intervalli brevi, su arpeggi o «ferme» scansioni di accordi. Come «essenza sonora della poesia», questa musica nasce dalla lettura, spiega il maestro: «La mia idea è coltivare il ritmo segreto, mentale della lettura. Quando leggiamo, i suoni si scolpiscon­o nella mente. Ogni scrittore ha un suo ritmo mentale. Io mi rappresent­o il testo come una specie di elettrocar­diogramma dell’autore e cerco di sincronizz­arlo con quello della musica». I personaggi si muovono «come in un acquario, avvolti in una nebbia di suoni».

Ma il dramma non manca: all’irrompere di Orlando, la musica cambia, si fa scheggiata, alternando accese dissonanze e arpeggiati stranianti, un immobile galoppo di accordi «ostinati», poi un Adagio sospeso in cui il paladino sembra contemplar­e se stesso o la propria ombra («Qui riman l’elmo»…); ancora ostinati all’uccisone del pastore, e infine una soave Siciliana, un gioiello di grazia, Adagio, attorno al re minore, memore dei cantastori­e, dei pupi e dei pupari… Intrecci di sogni: come nei Madrigali (in realtà più simili a corali), è sulla «sospension­e» di un ampio concertato che si spegne, su accordi non risolti, l’ultimo incontro tra il poeta e i suoi fantasmi. Anche Ariosto qui canta, ormai passato oltre il Confine: «I nuvoli d’intorno si dileguaro e si scoperse il sole»: così la morte è una notte che si schiara.

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