Corriere della Sera - La Lettura
Il maresciallo assediato dagli italiani e dai creditori
Corazziere da ragazzo, combattè contro Napoleone e si dimostrò l’uomo giusto al posto giusto nella tempesta del 1848-49 Salvò l’impero asburgico in una situazione critica. Poi scelse una linea duramente repressiva, che esasperò la popolazione lombardo-ven
Il feldmaresciallo Josef Radetzky è un personaggio a tutt’oggi amato e celebrato anche se ebbe una lunga vita militare onorata, ma per gran parte non straordinaria. Nato 250 anni fa, il 2 novembre 1766, da giovanissimo indossò l’uniforme dei corazzieri, combattendo dapprima contro i turchi e poi affrontando i rivoluzionari francesi in Belgio e poi a più riprese in Italia. Proprio nella Pianura Padana, nel 1796, vide nascere la stella del generale Bonaparte al suo primo comando importante. Negli anni successivi il futuro maresciallo dovette affrontare tutta la lunga sequenza di sconfitte che il grande còrso inflisse all’impero asburgico: tra le battaglie più famose, lui fu presente a Marengo e Wagram. Anche nei rovesci seppe distinguersi e fare una discreta carriera: così nel 1813 era capo di Stato maggiore alla battaglia di Lipsia nella quale Napoleone, reduce dalla disastrosa spedizione in Russia, venne finalmente sconfitto.
Finito però il tempo delle armi (gli austriaci non combatterono a Waterloo), per Radetzky arrivarono tempi tristi. Nel 1816, all’inizio della cosiddetta Restaurazione, aveva cinquant’anni ed era oberato di debiti perché sia lui sia soprattutto la moglie avevano le mani bucate. Continuava a proporre riforme dell’esercito e soprattutto caldeggiare grandi manovre annuali, per tenere ben oliato il meccanismo militare, ma tutto questo, in tempo di pace, era giudicato troppo costoso e, per lo spirito dei tempi, troppo avveniristico. Così per quindici anni dovette accontentarsi di comandi marginali e di rintuzzare gli assalti dei creditori.
La sua fortuna fu il riaccendersi dei moti del 1831 in Italia che lo fecero tornare al centro della scena: militarmente non ci fu bisogno di grande impegno, ma dal 1834 si trovò a comandare le forze austriache nel Lombardo-Veneto e poi gli arrivò anche la nomina a feldmaresciallo. Per quattordici anni condusse una vita italiana tranquilla, contrassegnata da un modo paternalistico di gestire l’esercito (in Austria è ricordato come vater, cioè papà, Radetzky), ma con attenzione alla sua concreta efficienza derivante dalla lunghissima esperienza di guerra.
La chiamata della storia gli arrivò quando, probabilmente, non se l’aspettava più e i suoi coetanei erano già in pensione o sotto terra. Aveva ottantadue anni quando scoppiarono le rivoluzioni del 1848 che travolsero tutta Europa e anche in Italia sembrarono schiantare gli equilibri costituiti: scacciato dalla Milano trionfante delle Cin- que giornate, Radetzky dovette andare a rinchiudersi nelle fortezze del Quadrilatero e lì vedere gli eserciti di tutti gli Stati italiani muovere contro di lui, mentre insorgevano anche Vienna e Budapest; perfino la famiglia imperiale aveva dovuto abbandonare la capitale.
In quei momenti, quando tutto sembrava perduto, Radetzky si trovò a essere la persona giusta al posto giusto. Lui aveva affrontato le armate della Rivoluzione fran- cese e poi quelle di Napoleone che sembravano dover rovesciare ogni cosa: alla fine, invece, aveva visto i valori del suo mondo trionfare, almeno in apparenza. Quali erano questi valori? Quelli del mondo asburgico e del Settecento: in cima a ogni cosa l’imperatore, coadiuvato dai nobili, che badava al bene dei suoi sudditi e puniva chi ne turbava la serenità; al di sotto un popolo tranquillo che viveva in una società sicura e ordinata; e infine un Dio che aveva disegnato in quel modo il mondo degli umani. Forte di queste convinzioni, semplici e concrete, si dispose ad affrontare anche quell’ennesima tempesta rivoluzionaria.
Delle sue truppe, ammassate nel Quadrilatero a rappresentare l’unico lembo di impero austriaco ancora intatto, il poeta Franz Grillparzer scrisse: «L’Austria è raccolta sotto le tue tende». La sua tranquilla ostinazione e l’esperienza di decenni di guerre risultarono alla fine vincenti, anche se forse più per demeriti altrui che per meriti propri. Dapprima la coalizione italiana si frantumò, divisa su tutto: ragioni, condotta e scopi della guerra. Poi assistette all’inattività dell’esercito sabaudo che, dilaniato dai dubbi strategici e diviso fra rivoluzionari e monarchici, invece di approfittare dei tanti momenti favorevoli avuti a disposizione, rimase passivo sul Mincio.
Alla fine Radetzky prese l’iniziativa e colse le vittorie di Custoza prima e di Novara poi, che sembrarono stroncare le velleità italiane di indipendenza e unificazione. Se per lui la guerra fu trionfale — salvatore della patria, simbolo della vittoria, artefice potente dei destini imperiali — il dopoguerra lo fu meno. Come governatore civile e militare del Lombardo-Veneto, governò unicamente con il pugno di ferro. Lui, bonario con chi condivideva la sua visione del mondo, sapeva essere crudele con chi ne era fuori: ad esempio, all’inizio del conflitto aveva fatto bombardare e bruciare il paese di Castelnuovo del Garda, a monito dei simpatizzanti per la causa italiana. Ai lombardi non fece nessuna concessione che venisse incontro alle esigenze di maggior libertà e rappresentatività.
Così, un po’ per l’età avanzatissima, un po’ per non essere riuscito a raggiungere nessun grado di pacificazione interna e aver imposto alle province italiane un dominio esclusivamente repressivo, Radetzky venne posto a riposo nel 1857. Morì a Milano nel 1858, giusto in tempo per non vedere il suo impero sconfitto dalla coalizione franco-piemontese e dalle manovre di Cavour.
Bonario con chi accettava la sua visione tradizionale e paternalista del mondo, diventava invece spietato verso chi gli si opponeva