Corriere della Sera - La Lettura
Quando Aleppo era il suk delle mille fedi
Philip Mansel ricostruisce la lunga età dell’oro della città siriana
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«Aleppo è la più grande città della Siria ma non ne è davvero parte, come non lo è della Turchia o della Mesopotamia. Piuttosto è un luogo dove tutte le razze, le fedi religiose, le lingue dell’Impero Ottomano s’incontrano, si conoscono e convivono le une con le altre in un comune spirito di compromesso e tolleranza». A leggerlo sembra una presa in giro di cattivo gusto o l’ironia paradossale di un aleppino disperato. E invece lo scriveva — in buona fede e con cognizione di causa — Lawrence d’Arabia, in uno dei tanti dispacci segreti che inviò al Foreign Office tra 1916 e 1917.
Il Medio Oriente era in subbuglio, la Prima guerra mondiale lo stava stravolgendo. Conquiste coloniali, nazionalismi nascenti e settarismi religiosi si fondevano a imporre nuovi confini e le condizioni di prossimi conflitti. Eppure, Aleppo restava la città più cosmopolita, aperta e moderata della regione. Un punto d’incontro unico tra Occidente e Oriente, a cavallo tra il bacino Mediterraneo e le vie carovaniere verso India e Africa subsahariana. Luogo di bellezza raffinata, opulenza, gioia di vivere, allegria, curiosità per il diverso. Centro commerciale per antonomasia, a modo suo laico, ironico con se stesso e con gli altri, pronto ad accogliere qualsiasi minoranza, purché non pretendesse di imporsi con la forza sulle altre. Tutte qualità che fanno a pugni con i massacri, i bombardamenti, gli orrori odierni. Stridono con la pulizia etnica perpetuata dal regime di Bashar Assad ai danni di sunniti e curdi, in sostanza contro qualsiasi oppositore della dittatura che impera a Damasco grazie alla protezione garantita dalla Russia di Putin assieme all’Iran e alle milizie sciite libanesi e irachene. E certo nulla hanno a che vedere con il radicalismo cieco dell’Isis, le punizioni in nome della legge religiosa islamica imposta dai qaedisti locali o immigrati.
Aleppo è un memento. Un’ombra inquietante. Le sue macerie una minaccia. Fa riflettere su quanto velocemente si possa precipitare dalla convivenza all’odio per il vicino. Anche per questo è di un tempismo perfetto il nuovo libro di Philip Mansel appena pubblicato da Tauris, Aleppo. The Rise and Fall of Sirya’s Great Merchant City, che condensa il tema nella definizione di «città levantina». Una vecchia passione questa del «Levante» per lo scrittore di origini francesi che, nostalgico, da anni esalta il tempo in cui c’erano sì divisioni, separazioni settarie, intolleranze tra imam, rabbini e arcivescovi, ma ad Aleppo era possibile andare d’accordo comunque. «Uno dei nuclei urbani continuamente abitati più antichi del mondo. Citata per la prima volta sulle tavolette cuneiformi di Ebla (una sessantina di chilometri a sudovest) nel 2.250 avanti Cristo. La leggenda vuole che Abramo mungesse il gregge sulle sue colline, da qui il nome, Halab, che in arabo significa latte», ricorda Mansel.
La sua posizione strategica come punto di ristoro e mercato per le gigantesche carovane di cammelli (anche 4 mila alla volta) la trasformò da subito in preda ambita: fu ittita, assira, babilonese, persiana, romana dal 64 prima di Cristo. Nel 637 diventa araba sotto il califfato omayyade che domina da Damasco. Nel 750 la prendono gli Abbasidi da Bagdad. Per brevi periodi diventa bizantina. Poi, nel 1260, dal Cairo arrivano i Mammelucchi. Ma dal 1516 per 400 anni la controllano gli Ottomani: la sua vera età dell’oro. Sono loro a garantire e addirittura coltivare il fiorire di comunità differenti, convinti che non l’omogeneità della popolazione, bensì il multiculturalismo, il convivere spalla a spalla di razze, religioni, etnie e culture diverse siano il segreto per la ricchezza comune, la pace per tutti. «La storia di Aleppo mostra che l’impero ottomano non era solo un’autocrazia e uno Stato musulmano, ma piuttosto un complesso di comunità, ognuna libera di seguire il suo credo e le sue tradizioni. L’interesse per la propria sopravvivenza e una buona dose di realismo scoraggiavano qualsiasi tentazione alla rivolta».
Tanta apertura favorisce il suk. Nel 1600 Aleppo è la terza città del Vicino Oriente dopo Istanbul e il Cairo. Ci lavorano ebrei, musulmani, cristiani e altri. I commercianti inglesi, francesi, olandesi, veneziani, spagnoli fanno la coda per prenotare tra l’altro i cavalli arabi. I rivenditori locali delle bestie conservano pedigree vecchi oltre 500 anni da mostrare ai compratori stranieri. «Ci sono tante nostre casate nobiliari con alberi genealogici molto più brevi», notava sarcastico un mercante francese. Nulla di tutto ciò esiste più. La crisi inizia con la guerra civile libanese oltre tre decadi fa. E adesso è un inferno.