Corriere della Sera - La Lettura
Che bel teatro, siamo inglesi
«The Entertainer» con Kenneth Branagh: puro sentimento «No Man’s Land» con Ian McKellen: pura intelligenza
In uno sfavillante racconto-saggio del 1995 Alberto Arbasino canta (è il verbo giusto) le gesta del teatro inglese dei decenni precedenti. Nel suo tipico stile fa un impressionante elenco di nomi. Ma per amor di verità, aggiunge, anche il nostro teatro non manca di glorie: il secondo elenco è meno lungo ma di uguale splendore. Oggi, tra National Theatre, Old e Young Vic, e West End, a Londra le cose non sono così diverse. Non farò nessun elenco, non ne ho voglia. Vorrei però dire che la ragione per cui sarebbe impossibile farne uno italiano è colpa (anche stavolta è la parola giusta) dei politici, degli amministratori, dei direttori di teatro. Se si pensa alle istituzioni si vede quanto si è ristretto, come fosse obbligatorio, il numero degli autori che si possono proporre al pubblico; se invece si pensa ai festival «più liberi» (e qui ripeto una piccola idea che mi è stata rimproverata) si vede che tornano sempre gli stessi nomi: non sono nomi di artisti mediocri, sono nomi di artisti che chiamati di continuo alla ribalta mediocri lo diventano: specie quando la drammaturgia e la storia se ne vanno. In questo caso se ne va il teatro.
Nello scintillio delle luci, nell’assordante e quasi inconcepibile traffico, nel palpitante addensarsi della folla, uno a due passi dall’altro, ecco due teatri del West End che non hanno rinunciato né alla storia né al presente: al Garrick c’è lassù, in alto, il nome di Kenneth Branagh, e sotto il titolo in cartellone, The Entertainer di John Osborne; al Wyndham’s c’è No Man’s Land di Harold Pinter e il suo interprete è Ian McKellen. Però sono venuto a Londra innanzi tutto per il primo. Di Terra di nessuno ho visto due memorabili edizioni italiane, la prima alla fine degli anni Settanta, con Giorgio De Lullo e Romolo Valli, la seconda vent’anni dopo con un’altra bella coppia, il regista Guido De Monticelli e Paolo Bonacelli.
The Entertainer, invece? È stato un titolo della giovinezza e non avevo avuto la fortuna di incontrarlo. Mi sfuggì l’edizione con Paolo Ferrari e Giovanna Ralli, che a Giovanni Raboni piacque senza riserve. Al Garrick, accanto a Branagh c’è, mutata, Greta Scacchi. Mutata come? L’avevo vista recitare tanto tempo fa, proprio in un Pinter ( Vecchi tempi), con la regia di Roberto Andò. Era come l’avevamo scoperta in Calore e polvere di James Ivory (aveva ventitré anni) o, più tardi, ne I protagonisti di Robert Altman: era alta, magra e bella. Ora è come de- ve essere la seconda moglie di Archie Rice, il nostro entertainer: una signora, un po’ adagiata nelle forme della mezza età. Il marito vorrebbe lasciarla per una delle sue ballerine ventenni, solo che è vigliacco e, chissà, ancora innamorato o, magari, affezionato. Non la lascerà. Né lascerà l’Inghilterra, anche se in quel momento, nel 1952, dopo la bruciante sconfitta del Canale di Suez, tanti giovani e meno giovani inglesi desideravano lasciare la madrepatria, andarsene in Canada o in Australia. Nicola Chiaromonte, non illuminatissimo (era il 1957), minimizzò più che poté The Entertainer: pensava che la faccenda di Suez, lì accampata, fosse un mero pretesto e che, di conseguenza, Anne Rice, la figlia del protagonista, reduce da una manifestazione di protesta in Trafalgar Square, fosse una pallida sorella spirituale di Jimmy Porter, eroe di Ricorda con rabbia: tutta roba di seconda mano.
Oggi è chiarissimo come non sia così. Suez è, e tale deve essere, lo sfondo. Rabbia e protesta sono rabbia e protesta, non hanno oggetto. Nel 1981 un critico come Guido Almansi scriveva: «La rabbia di Osborne è magnificamente futile e sterile: nessuno sa in che cosa consista ed è questa la sua forza d’urto. Non è la rabbia della giusta causa, o della protesta sociale, o della passione tradita (…) È una rabbia stupida: in questo la carriera di Osborne è coerente, non ha mai voluto né cercato le tiepide soddisfazioni dell’intelligenza, così come ha rifiutato le pallide leggi del buon gusto, del buon senso e delle buone maniere. Nella sua opera le cattive maniere non sono un’arma d’attacco, come in Jarry o in Artaud, ma un’arma di difesa».
È, più o meno, il pensiero di Arbasino, che di Osborne mise in scena Prova inammissibile: «Lui si tiene sul concreto. Non chiacchiera di ansie metafisiche o di generiche difficoltà di comunicare da qui a lì. Parla di Mini Morris e di “Daily Express”. Così turba un’intera generazione di coetanei che riconoscono nelle sue invettive le delusioni colpite e precisate». E quali sono, in The Entertainer, queste delusioni? Meglio di tutti lo chiarì un grande collega di Osborne, Arnold Wesker: «Le sue commedie non parlano di rabbia ma di un amore che muore per mancanza di generosità di spirito». Parole che riecheggiano, quarant’anni dopo, quelle di un grande critico, Kenneth Tynan, il quale scrisse che in effetti Osborne può piacere solo a una minoranza, una «minoranza di due milioni e settecentomila persone», i giovani inglesi (in quel momento) tra i venti e i trent’anni.
Il pubblico di Branagh, in quel sontuoso teatro che è il Garrick, naturalmente non è composto solo di giovani inglesi: è un pubblico di tutte le età e di provenienze diverse. Vedo un gruppo di ragazze giapponesi, elegantissime benché, come tutti, in pantaloni e scarpe di gomma, e uomini e donne di colore, che a Londra sono più inglesi degli inglesi bianchi, o diafani. In che cosa si identifica, questo pubblico? E che cosa riconosce? Né Suez, che equivale al Medio Oriente di oggi; né la rabbia, che equivale (forse) al nazionalistico orgoglio di chi ha votato Brexit. Si riconosce, con i fragorosi applausi finali, nel puro sentimento che di sé investe i personaggi di Osborne, e tutta la sua struggente commedia: la malinconia di un mondo al tramonto. Il padre di Archie, Billy, è stato un grande del music hall; Archie è già sulla strada del tradimento, si circonda di quelle ballerine seminude, indulge al burlesque; il fratello di Archie, Frank, uscito dal carcere dove era finito per obiezione di coscienza, canta magnificamente, come tutti in famiglia, ma a chi canta se non a loro: al padre, al fratello, alla nipote?
The Entertainer è composto da tredici scene. Per nove volte cantano: Archie, quattro; Frank, due — una per il lutto da cui la famiglia è colpita quando arriva la notizia che Mick, il figlio grande di Archie, è morto nella guerra con gli arabi; una, Phoebe, la signora Rice; e due il vecchio Billy. In specie quelli di Kenneth Branagh sono «numeri» che sarà difficile dimenticare: la prima scena e l’ultima, lui di spalle in un cono di luce, chi non commuovono? Merito solo suo o anche della regia di Rob Ashford?
Quando guardiamo uno spettacolo a Londra tendiamo a dimenticare che vi è una regia. Guardiamo gli attori. Ma che la cultura inglese sia diversa dalla nostra non implica che il regista di teatro non sia un artista: egli si nasconde dietro le quinte e riappare in modo flagrante