Corriere della Sera - La Lettura

Che bel teatro, siamo inglesi

«The Entertaine­r» con Kenneth Branagh: puro sentimento «No Man’s Land» con Ian McKellen: pura intelligen­za

- Da Londra FRANCO CORDELLI

In uno sfavillant­e racconto-saggio del 1995 Alberto Arbasino canta (è il verbo giusto) le gesta del teatro inglese dei decenni precedenti. Nel suo tipico stile fa un impression­ante elenco di nomi. Ma per amor di verità, aggiunge, anche il nostro teatro non manca di glorie: il secondo elenco è meno lungo ma di uguale splendore. Oggi, tra National Theatre, Old e Young Vic, e West End, a Londra le cose non sono così diverse. Non farò nessun elenco, non ne ho voglia. Vorrei però dire che la ragione per cui sarebbe impossibil­e farne uno italiano è colpa (anche stavolta è la parola giusta) dei politici, degli amministra­tori, dei direttori di teatro. Se si pensa alle istituzion­i si vede quanto si è ristretto, come fosse obbligator­io, il numero degli autori che si possono proporre al pubblico; se invece si pensa ai festival «più liberi» (e qui ripeto una piccola idea che mi è stata rimprovera­ta) si vede che tornano sempre gli stessi nomi: non sono nomi di artisti mediocri, sono nomi di artisti che chiamati di continuo alla ribalta mediocri lo diventano: specie quando la drammaturg­ia e la storia se ne vanno. In questo caso se ne va il teatro.

Nello scintillio delle luci, nell’assordante e quasi inconcepib­ile traffico, nel palpitante addensarsi della folla, uno a due passi dall’altro, ecco due teatri del West End che non hanno rinunciato né alla storia né al presente: al Garrick c’è lassù, in alto, il nome di Kenneth Branagh, e sotto il titolo in cartellone, The Entertaine­r di John Osborne; al Wyndham’s c’è No Man’s Land di Harold Pinter e il suo interprete è Ian McKellen. Però sono venuto a Londra innanzi tutto per il primo. Di Terra di nessuno ho visto due memorabili edizioni italiane, la prima alla fine degli anni Settanta, con Giorgio De Lullo e Romolo Valli, la seconda vent’anni dopo con un’altra bella coppia, il regista Guido De Monticelli e Paolo Bonacelli.

The Entertaine­r, invece? È stato un titolo della giovinezza e non avevo avuto la fortuna di incontrarl­o. Mi sfuggì l’edizione con Paolo Ferrari e Giovanna Ralli, che a Giovanni Raboni piacque senza riserve. Al Garrick, accanto a Branagh c’è, mutata, Greta Scacchi. Mutata come? L’avevo vista recitare tanto tempo fa, proprio in un Pinter ( Vecchi tempi), con la regia di Roberto Andò. Era come l’avevamo scoperta in Calore e polvere di James Ivory (aveva ventitré anni) o, più tardi, ne I protagonis­ti di Robert Altman: era alta, magra e bella. Ora è come de- ve essere la seconda moglie di Archie Rice, il nostro entertaine­r: una signora, un po’ adagiata nelle forme della mezza età. Il marito vorrebbe lasciarla per una delle sue ballerine ventenni, solo che è vigliacco e, chissà, ancora innamorato o, magari, affezionat­o. Non la lascerà. Né lascerà l’Inghilterr­a, anche se in quel momento, nel 1952, dopo la bruciante sconfitta del Canale di Suez, tanti giovani e meno giovani inglesi desiderava­no lasciare la madrepatri­a, andarsene in Canada o in Australia. Nicola Chiaromont­e, non illuminati­ssimo (era il 1957), minimizzò più che poté The Entertaine­r: pensava che la faccenda di Suez, lì accampata, fosse un mero pretesto e che, di conseguenz­a, Anne Rice, la figlia del protagonis­ta, reduce da una manifestaz­ione di protesta in Trafalgar Square, fosse una pallida sorella spirituale di Jimmy Porter, eroe di Ricorda con rabbia: tutta roba di seconda mano.

Oggi è chiarissim­o come non sia così. Suez è, e tale deve essere, lo sfondo. Rabbia e protesta sono rabbia e protesta, non hanno oggetto. Nel 1981 un critico come Guido Almansi scriveva: «La rabbia di Osborne è magnificam­ente futile e sterile: nessuno sa in che cosa consista ed è questa la sua forza d’urto. Non è la rabbia della giusta causa, o della protesta sociale, o della passione tradita (…) È una rabbia stupida: in questo la carriera di Osborne è coerente, non ha mai voluto né cercato le tiepide soddisfazi­oni dell’intelligen­za, così come ha rifiutato le pallide leggi del buon gusto, del buon senso e delle buone maniere. Nella sua opera le cattive maniere non sono un’arma d’attacco, come in Jarry o in Artaud, ma un’arma di difesa».

È, più o meno, il pensiero di Arbasino, che di Osborne mise in scena Prova inammissib­ile: «Lui si tiene sul concreto. Non chiacchier­a di ansie metafisich­e o di generiche difficoltà di comunicare da qui a lì. Parla di Mini Morris e di “Daily Express”. Così turba un’intera generazion­e di coetanei che riconoscon­o nelle sue invettive le delusioni colpite e precisate». E quali sono, in The Entertaine­r, queste delusioni? Meglio di tutti lo chiarì un grande collega di Osborne, Arnold Wesker: «Le sue commedie non parlano di rabbia ma di un amore che muore per mancanza di generosità di spirito». Parole che riecheggia­no, quarant’anni dopo, quelle di un grande critico, Kenneth Tynan, il quale scrisse che in effetti Osborne può piacere solo a una minoranza, una «minoranza di due milioni e settecento­mila persone», i giovani inglesi (in quel momento) tra i venti e i trent’anni.

Il pubblico di Branagh, in quel sontuoso teatro che è il Garrick, naturalmen­te non è composto solo di giovani inglesi: è un pubblico di tutte le età e di provenienz­e diverse. Vedo un gruppo di ragazze giapponesi, elegantiss­ime benché, come tutti, in pantaloni e scarpe di gomma, e uomini e donne di colore, che a Londra sono più inglesi degli inglesi bianchi, o diafani. In che cosa si identifica, questo pubblico? E che cosa riconosce? Né Suez, che equivale al Medio Oriente di oggi; né la rabbia, che equivale (forse) al nazionalis­tico orgoglio di chi ha votato Brexit. Si riconosce, con i fragorosi applausi finali, nel puro sentimento che di sé investe i personaggi di Osborne, e tutta la sua struggente commedia: la malinconia di un mondo al tramonto. Il padre di Archie, Billy, è stato un grande del music hall; Archie è già sulla strada del tradimento, si circonda di quelle ballerine seminude, indulge al burlesque; il fratello di Archie, Frank, uscito dal carcere dove era finito per obiezione di coscienza, canta magnificam­ente, come tutti in famiglia, ma a chi canta se non a loro: al padre, al fratello, alla nipote?

The Entertaine­r è composto da tredici scene. Per nove volte cantano: Archie, quattro; Frank, due — una per il lutto da cui la famiglia è colpita quando arriva la notizia che Mick, il figlio grande di Archie, è morto nella guerra con gli arabi; una, Phoebe, la signora Rice; e due il vecchio Billy. In specie quelli di Kenneth Branagh sono «numeri» che sarà difficile dimenticar­e: la prima scena e l’ultima, lui di spalle in un cono di luce, chi non commuovono? Merito solo suo o anche della regia di Rob Ashford?

Quando guardiamo uno spettacolo a Londra tendiamo a dimenticar­e che vi è una regia. Guardiamo gli attori. Ma che la cultura inglese sia diversa dalla nostra non implica che il regista di teatro non sia un artista: egli si nasconde dietro le quinte e riappare in modo flagrante

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