Corriere della Sera - La Lettura
Gli scarti della crisi
L’artista Josh Kline ha cercato tra i disoccupati di Baltimora i «modelli» per la sua installazione, ora a Torino: una generazione finita — letteralmente — nell’immondizia. «La Lettura» ha visto la mostra con Ernesto Olivero, fondatore del Sermig: «Incont
Basta davvero poco per trasformare la signora con i bigodini che spinge un carrello stracolmo di cookies al cioccolato, minestre in scatola, lattine di Coca-Cola e carta igienica nella giovane donna sigillata in un foglio di cellophane stesa sul pavimento di una vecchia fabbrica di cerchioni. Si parla, per ora, solo di arte. Da una parte c’è la Supermarket Lady di Duane Hanson, una scultura del 1969 subito trasformata in uno dei simboli universali del peggior consumismo; dall’altra, 47 anni dopo, c’è una delle protagoniste di Unemployment, la mostra di Josh Kline che alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino denuncia con i suoi iperrealistici fantocci la trasformazione di milioni di professionisti della classe media in rifiuti da buttare (e da chiudere appunto in un foglio di cellophane). Una discesa verso l’abisso della povertà e della non-dignità che può innescarsi davvero in un attimo. Per colpa di un licenziamento, di una malattia, di una separazione particolarmente dolorosa e costosa.
Ernesto Olivero non è un artista: prima del 1964 aveva lavorato in banca, da impiegato. Ma conosce bene la realtà degli «scarti della crisi»: quelli che si possono ritrovare poco lontano da qui, alla fermata del tram numero 7 dei Giardini Reali, imbacuccati in un’improbabile tuta impermeabile verde militare sommersi dai loro oggetti, oppure sotto i portici di via Roma, con un piccolo cane in braccio, accanto a una vetrina che propone una borsetta di vitello azzurro da cinquemila euro e a un foglio che implora: «Una carità, abbiamo fame». Dal 24 maggio 1964 Olivero è l’anima del Sermig, il Servizio missionario giovani, un gruppo di volontari (oltre un migliaio) che a Torino, nell’ex-arsenale di piazza Borgo Dora, alle spalle di Porta Palazzo, si occupa ogni giorno di poveri e «nuove povertà». Offrendo (ad esempio) duemila posti per dormire, quattromila pasti, duemila docce, settecento servizi di vario tipo (dalla lavanderia al taglio dei capelli), oltre 70 visite mediche gratuite. Quotidianamente. «Non una comunità di accoglienza, piuttosto una comunità per accogliere » la definisce Olivero, perché vuole fornire a questi uomini, donne, vecchi e ragazzi «gli strumenti per sopravvivere con dignità». Una comunità di ispirazione fortemente cattolica («pur accogliendo senza difficoltà credenti di altre fedi») anche se «la tragedia può essere penetrata talmente dentro le loro ossa che nemmeno la fede, quale essa sia, può servire».
La Bibbia che gli ha regalato la madre di don Peppe Diana, il prete di Casal di Principe ucci- so dalla camorra nel 1994, e il suo Quaderno
alla rovescia dove ha fatto scrivere «Papi e brigatisti», sono gli unici supporti di Ernesto Olivero in questa visita in compagnia de «la Lettura» alla mostra torinese di Kline: «Mi ha incuriosito l’invito, ho pensato che potesse essere una buona occasione per scoprire altre verità». Quelle verità marginali originate — spiega a sua volta a «la Lettura» l’artista americano — «da una automazione che non è capace di creare sicurezza ma instabilità, da una politica che non ha saputo prevedere il collasso della middle class e neppure una possibile via d’uscita al malessere dell’Occidente». E, conclude Kline, «gli uomini e le donne che ho chiuso dentro quei fogli di cellophane potrebbero essere gli stessi che hanno votato per Trump e prima ancora per la Brexit».
Già dalla prima stanza dell’esposizione, quella in cui le scatole di cartone con gli effetti personali dei licenziati sono state chiuse nel guscio di un virus, Olivero chiarisce la sua posizione, non tanto sulla qualità artistica («Non mi sono preparato perché volevo essere libero di emozionarmi») quanto sul destino di questi presunti scarti: «Quando qualcuno licenzia qualcun altro la prima cosa che dovrebbe domandarsi è: “Ora questo dove va? Che cosa fa? Come farà a pagare l’affitto?”. Se solo si facesse questa domanda sono sicuro che troverebbe un’alternativa». Perché, aggiunge, «le persone che vengono licenziate spesso non hanno la minima idea di cosa sia la povertà, non l’hanno mai provata ed è così che comincia la loro follia». Una follia che «improvvisamente bussa», è il verbo scelto da Olivero, «alla porta di chi è stato abituato a comandare, non solo a essere comandato. E quando la follia bussa devi trovare una via di fuga». È allora che «qualcuno si spara, qualcuno fa il bandito, qualcuno distrugge la famiglia. Ma anche in questi gesti estremi si rivelano dei pasticcioni, dei dilettanti».
Ci può essere una soluzione? «Queste persone devono essere prima di tutto amate, perché solo chi si sente amato ce la può fare e può avere la voglia di essere salvato. Ma poi è la società che deve intervenire: una società seria non dovrebbe permettere che i suoi figli possano entrare in una simile follia e la nostra, purtroppo, non lo è, perché non si mette nei panni di chi ha perso il posto ed è diventato bandito». Una metafora più volte ricorre durante la visita di Olivero, quella del pesce fuor d’acqua: «Una persona che ha perso tutto, che comincia a chiedersi in continuazione “ades- so come farò a dare da mangiare ai miei figli?” è come un pesce fuor d’acqua: lei quanto crede che possa vivere? Ecco, una società adulta dovrebbe essere capace di trovare l’acqua per far vivere questi pesci».
Nella seconda stanza della mostra c’è l’emblema di Unemployment: uomini e donne rannicchiati per terra accanto a carrelli carichi di plastiche, vetri e altro materiale di riciclo. In pratica, una sorta di attualizzazione della Su
permarket Lady di Hanson: sculture in silicone con i volti e le mani che (grazie alla stampa 3 D) ri p ro d u co n o fe de l mente quelli di altrettante persone realmente licenziate e in qualche modo cancellate, secondo Josh Kline, dalla «dignità della condizione umana». È qui, mentre in s ot tofo ndo sc o r r e qu e l l a ch e sembra un Dies irae molto antico, che il mondo dell’arte di Kline e il mondo della carità del Sermig sembrano allontanarsi: «Sa che cosa provo guardando queste sculture? Niente. Perché io conosco la realtà dei volti, quelli che impallidiscono veramente, di chi si chiede: “Adesso dove vado? Dove andrò a dormire?”. La prima cosa che ti chiedono è un letto. Ho davanti agli occhi un anziano pieno di dignità che qualche sera fa è venuto a trovarmi all’Arsenale e mi ha chiesto: “È lei che accoglie gli extracomunitari? Può occuparsi anche di me? Mi hanno sfrattato perché non potevo più permettermi l’affitto della casa dove ho sempre vissuto”. Che cosa potevo fare? Gli ho trovato un letto e poi anche una piccola casa. Ma le sembra che una società giusta possa fare questo?».
Alla fine i due percorsi ritrovano un punto di contatto: il video che conclude la mostra è un elogio di una immaginaria redistribuzione del reddito. E di qualcosa di molto simile parla anche Ernesto Olivero che, come Kline, sembra oltretutto battersi contro la demagogia della politica, contro i cattivi consiglieri, contro l’automazione a tutti i costi («Bisogna salvare il computer ma tornare alla bicicletta»). La ricetta giusta? «La società deve prevedere un’alternativa al lavoro. Lo deve fare per amore, come faccio io, ma anche per convenienza e soprattutto deve farlo alla svelta perché alla fine gli esclusi di oggi, gli scarti della crisi, non ci ascolteranno più. E, da banditi o da terroristi, saranno i nostri veri nemici perché, a quel punto, non avranno davvero più nulla da perdere».