Corriere della Sera - La Lettura
Cercate una traduttrice per la lingua degli alieni
Conflitti Ogni «alfabeto» modifica lo sviluppo cognitivo: la pellicola di Denis Villeneuve (appena uscita negli Usa) su una nuova invasione extraterrestre in realtà rimanda persino alle dispute tra Platone e Gorgia Sembrano seppie, comunicano in modo inco
AHopevale, comunità nel Queensland australiano, vive la tribù dei Guugu Yimithirr, icu i membri sembrano dotati di un senso dell’ orientamento fuori del comune. Basta chiedere a un bambino dove si trovi il Nord e lui, senza bisogno di controllare la posizione del sole, indicherà la direzione esatta. Com’è possibile? Cos’ha di diverso un bambino Guugu Yimithirr da uno europeo o americano? Niente, a parte una piccola differenza di linguaggio: se per indicare la posizione degli oggetti nello spazio noi utilizziamo coordinate egocentriche (davanti, dietro, sinistra, destra), gli aborigeni del Queensland utilizzano quelle geografiche (nord, sud, est, ovest).
Questo esempio viene spesso citato per dimostrare come la lingua parlata da un individuo possa incidere sul suo modo di pensare. Ma se basta una differenza così piccola a modificare lo sviluppo cognitivo, cosa accadrebbe se una persona imparas- se una lingua diversa da quelle parlate sulla Terra?
È la domanda attorno a cui si sviluppa Arrival, il film di Denis Villeneuve uscito l’11 novembre negli Usa (in Italia arriverà il 19 gennaio). A un primo sguardo, la premessa ricalca quella di tanti blockbuster fantascientifici: enormi oggetti volanti non identificati calano in diversi punti della Terra mettendo l’umanità davanti alla certezza di non essere la sola specie intelligente nell’universo e al dubbio di doversi preparare a un conflitto globale. Le differenze però non tardano ad arrivare: invece di andare a snidare il solito scienziato sociopatico o il classico Rambo dal cuore tenero, in questo caso le autorità bussano alla porta di Louise Banks, una professoressa di linguistica esperta in traduzioni, per affidarle il compito di capire come comunicare con i nuovi ospiti.
Gli alieni vengono chiamati eptapodi, e il loro aspetto non è così distante da quello dei cefalopodi nectonici (le seppie) che popolano gli oceani. Il loro sistema nervoso però è assai più complesso, e il linguaggio che utilizzano è totalmente differente da qualsiasi altro sulla Terra: gli eptapodi si servono infatti di una scrittura con un’ortografia non lineare: niente punteggiatura, nessun ordine delle parole, solo dei cerchi d’inchiostro (o logogrammi) il cui significato cambia a seconda di come i bordi sono frastagliati.
L’oggetto del contendere è un particolare segno utilizzato da uno degli alieni, a cui la dottoressa Banks dà inizialmente il significato di «arma», inducendo così l’esercito a mettersi sul piede di guerra. Ben presto, però, sorge il dubbio che, se per gli umani la parola «arma» ha un significato ben preciso, nel sistema linguistico alieno il segno potrebbe assumere un significato diverso a seconda del contesto, come ad esempio «strumento».
La tematica del linguaggio alieno e della sua intraducibilità è ricorrente nella fantascienza: in Babel-17, Samuel R. Delany im- magina un linguaggio capace di alterare le percezioni di chi lo parla, e che viene dunque utilizzato come arma in un conflitto i nter s te llare ; i n Embassytown, China Miéville racconta di un linguaggio alieno che richiede di pronunciare due parole alla volta e può creare dipendenza nell’ascoltatore. Nel caso di Arrival — come del racconto di Ted Chiang da cui è tratto, Storie della tua vita (in uscita il 29 novembre per Frassinelli) — il fatto di apprendere la lingua eptapodi crea nella protagonista una distorsione cognitiva, portandola a modificare la propria concezione del tempo, e ponendola nella surreale condizione di «ricordare» eventi futuri.
Questa prospettiva è un’interessante rielaborazione dell’Ipotesi di Sapir-Whorf (nota anche come Ipotesi della relatività linguistica), che stabilisce come la struttura del linguaggio influenzi significativamente lo sviluppo cognitivo e la visione del mondo di chi lo parla. L’ipotesi risale agli inizi del XX secolo, ma il concetto alla
sua base genera controversie almeno dai tempi di Platone e Gorgia: mentre il filosofo di Atene credeva nell’esistenza di idee eterne e immutabili che il linguaggio poteva solo cercare di rispecchiare, il sofista di Lentini riteneva che la realtà tangibile non potesse essere esperita se non attraverso il linguaggio. Relativisti e universalisti ancora oggi si scornano sulla possibilità che il linguaggio influenzi e limiti il pensiero:
Arrival sfrutta la cornice fantascientifica per affrontare la questione da un punto di vista diverso, immaginando le implicazioni cognitive di un linguaggio sviluppato da creature neurologicamente diverse da noi, che presumibilmente si affidano a un diverso set di sensi per filtrare la realtà, e che potrebbero essere in grado di percepire aspetti dell’esistenza che a noi sono preclusi. Il logogramma della discordia ( arma/
strumento) su cui si impernia la trama, in questo senso, è un espediente più efficace di qualunque effetto speciale per mostrare fino a che punto una specie aliena possa essere diversa dalla nostra. Perché sì, magari un extraterrestre può ricordare nell’aspetto una gigantesca seppia, ma è assai improbabile che il suo ambiente naturale, la sua tecnologia, il suo impianto sociale, e dunque la sua cultura e il suo sistema di valori siano anche solo lontanamente riconducibili al nostro. È dunque plausibile che, anche nella remota eventualità in cui fossimo in grado di associare a dei segni alieni delle parole umane, sarebbe comunque impossibile trovare una traduzione affidabile. Torniamo ora alla disputa arma/stru
mento. Di fronte a un ipotetico sbarco alieno, l’essere umano prende automaticamente in considerazione la possibilità che gli extraterrestri possano volerlo annientare; questo perché la storia e l’esperienza gli hanno insegnato che quella prospettiva è la più probabile. Analogamente, sappiamo tutti che un coltello è uno strumento che ha diverse applicazioni, ma se a impu- gnarlo è uno sconosciuto che ci è appena entrato in casa quello strumento ai nostri occhi diventa un’arma. Per quanto ne sappiamo, per una popolazione aliena il concetto stesso di «guerra» potrebbe non esistere.
Nel frattempo, lontano dalle sale cinematografiche, c’è chi si sta effettivamente preparando a uno scenario di questo tipo. È dagli anni Settanta che si effettuano tentativi di comunicazione interstellare, la maggior parte dei quali sotto forma di radiotrasmissioni in codice binario indirizzate a stelle comprese tra i 17 e i 69 anni luce dalla Terra. Abbiamo mandato in orbita placche metalliche che raffiguravano le caratteristiche salienti della nostra specie, e progettato linguaggi artificiali basati sulla matematica — come Lincos — affinché risultino comprensibili anche a un’ipotetica forma di vita aliena. Ma un conto è in- viare messaggi in bottiglia nel cosmo, un altro è interfacciarsi con creature in carne e ossa. Chi si occupa di exolinguistica (la disciplina che specula su come comunicare con ipotetiche specie extraterrestri) ritiene che, in un’eventualità come quella descritta in Arrival, la comunicazione potrebbe dover prescindere dal linguaggio scritto e parlato. Dopotutto, ci sono specie come i camaleonti che comunicano modificando il proprio colore; alcuni insetti utilizzano i feromoni; lo stesso essere umano utilizza anche linguaggi non codificabili, come la postura e la mimica facciale.
In tempi non sospetti, Wittgenstein diceva che «se un leone potesse parlare, non saremmo in grado di comprenderlo». In realtà il «leone» in questione potrebbe non essere nemmeno dotato di un apparato fonatorio. Nel peggiore dei casi, anzi, potrebbe comunicare in un modo per noi non intelligibile, rendendo del tutto inutili parole, ortografia o logogrammi sibillini.