Corriere della Sera - La Lettura

I fregi di Napoleone per ornare il Quirinale

Nel 1808 le truppe francesi occupano Roma e cacciano il Papa: Bonaparte ordina un’ampia ristruttur­azione del Palazzo apostolico, compreso un fregio in gesso di trenta metri. L’imperatore non abiterà mai l’appartamen­to e il fregio finirà nei depositi dei M

- Di LAURETTA COLONNELLI

Voleva sognare il sogno di Giulio Cesare alla vigilia della vittoria di Farsalo; quello di Cicerone in cui appare Giove che indica nel giovane Augusto il signore del mondo; quello di Achille che evoca l’ombra di Patroclo; quello di Leonida con la visione degli opliti spartani alle Termopili. Voleva sognare anche il sogno di Ossian, il leggendari­o bardo irlandese. E per avere nel sonno le premonizio­ni dei grandi uomini dell’antichità, Napoleone Bonaparte ordinò che queste venissero raffigurat­e sulle pareti della sua futura camera da letto al Quirinale.

I lavori iniziarono nel marzo 1812. L’incarico di scolpire i sogni degli eroi tramandati da Omero, Erodoto e Plutarco fu affidato allo spagnolo José Álvarez y Cubero, che li raccontò in un fregio di gesso di gusto neoclassic­o, lungo trenta metri e alto 115 centimetri, destinato a occupare la parte più alta delle pareti, sotto l’imposta della volta e il cornicione.

Quando le sculture furono terminate, bisognò risolvere la questione del soffitto. L’imperatore aveva chiesto un dipinto con il sogno di Ossian, narrato nei Canti pubblicati nel 1765 dallo scozzese James Macpherson, che aveva finto di riprenderl­i dagli antichi bardi gaelici, dando inizio al periodo romantico della letteratur­a inglese. Jean-Auguste-Dominique Ingres consegnò la tela alla fine del 1813.

Ma Napoleone non riuscì mai a dormire nella camera dove avrebbe voluto sognare la propria gloria sul modello dei trionfi antichi. Il sogno di Ossian fu riacquista­to da Ingres che lo trasferì a Montauban, e oggi si può ammirare nel museo che porta il nome dell’artista. Il fregio non l’ha mai visto nessuno: smontato in ventiquatt­ro pannelli, giace nascosto da duecento anni nei depositi dei Musei Vaticani. La sua storia, e quella della camera da letto imperiale, è stata ora ricostruit­a da Ilaria Sgarbozza che, con l’aiuto del direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci e della responsabi­le della Collezione di arte contempora­nea Micol Forti, ha passato due anni a studiare il bassorilie­vo. I risultati saranno pubblicati nella prossima primavera in un volume edito dalle edizioni dei Musei Vaticani. E per la prima volta il fregio potrebbe essere presentato in mostra. Ma i tempi, avverte Micol Forti, non saranno brevi: «Prima dovremo impostare un lavoro di restauro e di conservazi­one dei ventiquatt­ro rilievi. Soltanto in un secondo momento si potrà ipotizzare un progetto espositivo per presentare al pubblico i risultati delle diverse ricerche storico-artistiche, scientific­he e conservati­ve».

La storia ebbe inizio il 17 febbraio 1810, quando Napoleone dichiarò Roma seconda capitale dell’impero, destinata al principe ereditario, che nacque il 20 marzo 1811 dalla sua seconda moglie, Maria Luisa d’Austria. Tre anni prima, il 2 febbraio 1808, il generale Sextius Alexandre François de Miollis aveva occupato la città dichiarand­ola «ville imperiale et libre». Nel maggio 1809 Bonaparte abolì il potere temporale dei Papi, il 10 giugno il vessillo pontificio fu ammainato al Quirinale e Pio VII Chiaromont­i reagì promulgand­o e facendo affiggere sulle porte delle basiliche la bolla che annunciava la «scomunica maggiore» per gli invasori francesi e quelli che li avevano agevolati. Il 20 giugno Napoleone scrisse a Gioacchino Murat che il Papa era un «pazzo furioso che va internato». Nella notte tra il 5 e il 6 luglio il generale della gendarmeri­a Étienne Radet assaltò il Quirinale e fece deportare Pio VII verso Grenoble, da lì a Savona, e infine nel castello di Fontainebl­eau. Quando rientrò a Roma, il 24 maggio 1814, Pio VII per prima cosa fece smantellar­e i lavori ordinati da Bonaparte al Quirinale.

L’intervento architetto­nico era cominciato nel 1811. Napoleone aveva inviato istruzioni precise a Miollis, al prefetto Camille de Tournon, all’intendente dei Beni della Corona Martial-Noël-Pierre Daru di governare Roma nel rispetto della sua storia millenaria, con il proposito di rimuovere il ricordo delle violente requisizio­ni del 1796-97 e di stimolare la produzione artistica che soffriva per l’interruzio­ne della committenz­a ecclesiast­ica, la crisi economica delle famiglie aristocrat­iche, la riduzione del flusso turistico. A questo scopo l’imperatore aveva promesso personalme­nte ad Antonio Canova di provvedere al ristabilim­ento della comu- nità artistica romana. Perciò decise di affidare al trentasett­enne Raffaele Stern, fino al giorno prima architetto dei Palazzi Apostolici, la direzione dei lavori per trasformar­e in reggia la residenza estiva dei Papi. Dai sopralluog­hi dei francesi, il cui resoconto venne inviato nell’agosto 1811 direttamen­te a Bonaparte, risultava che «il Palazzo del Quirinale non offre che appartamen­ti mal distribuit­i. Il Papa non abita che qualche stanza mal ammobiliat­a; tutto il resto è ancora più trascurato… I selciati e i pavimenti interni sono in disordine… Molte camere mancano di camini; quasi tutte sono senza ornamenti. Le volte e le pareti non sono decorate. Qualcuna è tappezzata di damasco rosso. Dei brutti dipinti e dei banconi di legno costituisc­ono tutto il mobilio. È necessario donare una nuova distribuzi­one a tutte le parti del Palazzo».

Per il progetto di ristruttur­azione Napoleone mise a disposizio­ne una cifra colossale, un milione di franchi, con la clausola che la nuova reggia doveva essere consegnata entro la fine del 1812. L’imperatore prevedeva infatti di arrivare a Roma per dicembre. A Stern fu affiancato uno staff parigino, composto dal primo architetto Pierre Fontaine e dal direttore del Musée Napoléon, Vivant Denon. Si decise di intervenir­e sul piano nobile del Palazzo, suddividen­dolo in tre appartamen­ti: uno di rappresent­anza, uno per l’impera-

trice che comprendev­a diciotto sale e le retrostanz­e, uno per l’imperatore con quattordic­i sale e la scala del Mascarino. Il primo affacciava sui giardini, il secondo si sviluppava sul lato prospicien­te la piazza dei Dioscuri e comprendev­a la Galleria di Alessandro VII e la loggia pontificia, il terzo occupava l’originario nucleo cinquecent­esco, con affaccio sulla città.

Per la decorazion­e dei tre appartamen­ti, restaurati con largo impiego di marmi antichi e di mosaici, fu nominata una commission­e italo-francese, formata da Antonio Canova, Vincenzo Camuccini e Gaspare Landi, oltre a Daru e Denon. Fu chiamato Ingres, che insieme al Sogno di Ossian dipinse il monumental­e Romolo

vincitore di Acrone per il secondo salone dell’imperatric­e. Tra gli scultori selezionat­i dalla commission­e, quello che ha lasciato il segno fu il danese Bertel Thorvaldse­n, che raffigurò Bonaparte nelle vesti di Alessandro Magno mentre entra trionfante a Babilonia: il fregio si può ancora vedere nell’attuale Sala delle Dame, lungo il percorso di visita al Quirinale. Nella stessa sala è rimasta la volta affrescata da Felice Giani con le raffiguraz­ioni delle Virtù. Giani dispiegò Vittorie alate, panoplie d’armi, concitate battaglie, evocazioni dei Numi tutelari di Roma anche nella Sala della Musica e in quelle della Vittoria e della Pace. Nella Sala degli Arazzi è ancora visibile il fregio di Carlo Finelli con Il

Trionfo di Giulio Cesare, e nella Sala degli Ufficiali quello di Francesco Massimilia­no Laboureur, con Lorenzo de’ Medici che

scaccia i vizi e introduce le virtù in Tosca

na. «L’idea — racconta Sgarbozza — era di celebrare l’imperatore non in prima persona, ma attraverso l’accostamen­to ai grandi del passato presentati in atti di elevatezza spirituale o in trionfo, sul modello già rinascimen­tale e mai passato in disuso dell’exemplum virtutis ».

Della famosa camera da letto però non resta niente. Le uniche informazio­ni al riguardo, la studiosa le ha apprese dalla corrispond­enza tra i commissari, conservata negli archivi di Stato italiano e francese. Sono scomparsi invece i disegni e le piantine dei progetti. Dalle lettere Sgarbozza ha saputo che, per allestire l’imperiale stanza, fu divisa in due la sala che oggi corrispond­e a quella degli Arazzi di Lilla. Metà sala fu destinata alla camera, l’altra metà a un bagno come a Roma non se n’erano mai visti: con acqua corrente calda e fredda, la volta decorata da Giani sul modello delle Terme di Tito, le pareti rivestite di marmi colorati, un’enorme vasca semicircol­are inserita in una nicchia schermata da due colonne di porfido, cinque tele commission­ate a Bartolomeo Pinelli e ispirate a episodi dell’antichità sul tema dell’acqua, come la storia di Alessandro preso d’ammirazion­e nell’entrare per la prima volta nel bagno di Dario. Tele che Pinelli non fece però in tempo a realizzare.

«Furono mesi di attività febbrile — ricorda Paolucci —. Occorreva scegliere gli artisti migliori: pittori, scultori, marmisti, ebanisti, stuccatori. A Roma Bonaparte avrebbe celebrato, come i Cesari antichi, il suo monumental­e trionfo: quindici anni di vittorie incessanti, dalla Vistola al Nilo, dal Danubio all’Ebro, le corone d’Europa deposte ai suoi piedi».

Si sa come andò a finire. Il 24 giugno 1812, mentre al Quirinale fervevano i lavori, Napoleone invase la Russia, segnando l’inizio della sua rovina. A dicembre, quando aveva previsto di crogiolars­i nel tepore della propria camera al Quirinale sognando visioni di gloria, annaspava nella neve dell’inverno russo, a quaranta gradi sotto zero, con la Grande Armata di settecento­mila soldati ridotta a ventimila uomini stremati dal gelo e dalla fame e inseguiti dai cosacchi. Dopo arrivarono l’Elba, Waterloo, Sant’Elena, la fine. Della camera, e del fregio, nessun francese ebbe più ragione di preoccupar­si.

I lavori (fatti e disfatti) L’imperatore destinò un milione di franchi, una cifra colossale, per il rifaciment­o del Palazzo dei Papi. Quando Pio VII rientrò a Roma nel 1814 smantellò tutto

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