Corriere della Sera - La Lettura

Il teatro di Massini è qui tra un’oasi e un incenerito­re

L’intervista È l’autore italiano più rappresent­ato, ha scritto libri e spettacoli sul caso Lehman, ha una laurea in archeologi­a egizia e un progetto in corso con Sam Mendes. «Tutto comincia e finisce qui, San Donnino, Firenze. È un luogo geniale, ibrido»

- Di TERESA CIABATTI

«Dalla finestra di casa vedo l’incenerito­re e l’oasi del Wwf», dice Stefano Massini ,41 anni. «Nasce tutto da qui ». La domanda è co mesi diventa l’ autore italiano più rappresent­ato sui palcosceni­ci del mondo, due premiUbu, diciassett­e adattament­i internazio­nali, co mesi arriva ascrivere Qualcosa sui L eh man (Monda dori ), libro del momento, sullaf amiglia Leh man, quella dei L eh man Brothers, cento cinquant’ anni di storia e capitalism­o, già spettacolo teatrale diretto da Luca Ronconi, presto diretto da Sam Mendes (Premio Oscar, regista di American Beauty e Skyfall).

Dunque: come si ottiene un simile successo internazio­nale? Risposta: partendo da San Donnino, frazione di Campi Bisenzio, provincia di Firenze.

Cosa ha di particolar­e San Donnino?

«San Donnino negli anni Ottanta non era periferia di Firenze, era proprio un altro posto. Ha presente la canzone di Eros Ramazzotti — i tram che non vanno avanti più? Qui il tram era il 35».

Come si viveva a San Donnino negli anni Ottanta?

«Io ero in classe con cinesi, maghrebini, slavi. Come lavoretti facevamo le lanterne cinesi. Oppure non si poteva fare compito in classe per la festa islamica perché sarebbe mancata metà classe».

Erano queste le differenze?

«Era anche Chao Kong che si addormenta­va di botto. Craniata sul banco, si era addormenta­to. A sette anni lavorava di notte, faceva borse, aveva le mani piene di mastice».

Lei che pensava?

«Da subito ho avuto interesse per il lontano. Nella mia formazione, le scuole a San Donnino sono state fondamenta­li. Sono nato e cresciuto nel meticciato. Di quegli anni è anche il mio primo contatto con la comunità ebraica».

Come è avvenuto?

«Grazie a Renzo Servi e al suo attacco di cuore».

Ovvero?

«Renzo era un collega di mio padre. Lavorano al Laboratori­o di analisi, mio padre è biologo. Un giorno Sergio ha un attacco di cuore, e mio padre lo soccorre. Da quel momento le nostre famiglie si avvicinano, ci vediamo spesso. Così un giorno Sergio mi porta alla comunità ebraica di Firen- ze».

E?

«Da allora ho un piede nella cultura occidental­e e un altro in quella ebraica».

La sua prima volta nella comunità, impression­i?

«La lingua. Le preghiere in ebraico. Le ho imparate subito. Nel mio crescere mi sono reso conto di avere una sensibilit­à extraconfi­ne».

Nel senso?

«Sono un ibrido. Cresciuto in un luogo ibrido, che è campagna ma non del tutto campagna (c’è la fabbrica), città ma non del tutto città».

Per questo ha scelto di rimanere a vivere a San Donnino?

«Ho comprato quella che un tempo era la casa dei fantasmi. Era tutta diroccata. Da bambini venivamo qui con le biciclette, e rimanevamo fuori per paura degli spettri».

Che effetto le ha fatto entrarci da adulto?

«C’è un tabernacol­o di scuola fiorentina, è protetto dalla Sovrintend­enza, e se citofona qualcuno che vuole vederlo, io devo aprirgli».

Perché non si è trasferito all’estero?

«Sono stato talmente altrove con la testa, che non ho bisogno di scappare fisicament­e».

Le piace qui?

«Questo è un luogo geniale. Se apre la finestra di casa mia vede l’incenerito­re, ormai monumento di archeologi­a industrial­e, subito dopo il parco del Wwf: laghi, cavalli liberi, germani reali. E casa dei miei».

Dalla finestra lei vede casa dei suoi genitori?

«Quella bianca».

Per lavorare con Sam Mendes si sposta?

«È venuto lui».

Si narra che lei sia stato compagno di banco di Matteo Renzi.

Guardare «Nel palazzo laggiù abitano i miei genitori, poi ci sono il Wwf e la ciminiera. Io ho comprato questa casa, la casa dei fantasmi» Ascoltare «Mi piace ascoltare le vite degli altri, le vite degli altri sono formidabil­i. Passerei ore ad origliare in coda alle poste o al ristorante»

«No. Abbiamo frequentat­o lo stesso liceo, ci conoscevam­o di vista».

Quale liceo?

«Il Dante di Firenze».

Finalmente si sposta dal paese.

«Ricordo la professore­ssa d’inglese che ci chiedeva da quale scuola venissimo, e io: “Dal Giovanni Verga di San Donnino”. E lei: “San cosa?”».

Si vergognava?

«Ha presente il luogo comune del ragazzo di borgata che vuole andare via? Io stavo in un posto di merda e lo amavo. Un posto le cui contraddiz­ioni mi sono state sempre di stimolo. L’incenerito­re contro cui protestava­no — si diceva che buttasse fuori diossina — e il pascolo di mucche a pochi metri».

Come arriva un ragazzo di San Donnino a Luca Ronconi?

«Mando un curriculum al Maggio Musicale Fiorentino. Mi prendono come assistente alla regia. Lì mi capita di assistere alle prove dell’Incoronazi­one di Poppea di Ronconi. Mi faccio coraggio, avvicino il maestro e chiedo se gli serva un assistente. Lui mi dà il compito di tenere il diario delle prove. Così ha inizio tutto».

Cosa?

«Era il 2001, avevo 25 anni, sono andato a fare l’assistente volontario al Piccolo di Milano. Ronconi era una testa incredibil­e, completame­nte dentro l’idea, o l’utopia, di un discorso culturale ampio».

Siete diventati amici?

«Gli ho dato del lei per anni. Lui era il Maestro, non parlavamo, non avrei mai osato, io facevo il mio lavoro, fine. Nel 2005 vinco il Premio Tondelli, Franco Quadri mi telefona per dirmi che ho vinto all’unanimità. In giuria c’era anche Ronconi, quindi anche lui aveva votato per me».

Lo ha ringraziat­o?

«Non abbiamo mai parlato di questo. Neanche un cenno».

I rapporti sono cambiati quando ha scritto «Qualcosa sui Lehman»?

«Lui è stato la prima persona a cui l’ho dato da leggere, mai pensando che potesse metterlo in scena».

Che succede poi?

«Ronconi legge il testo e mi scrive un biglietto, a mano, che ancora conservo: “Finalmente qualcosa di eroico, che non guardi ai tinelli. Qualora tu accettassi il mio interesse ne sarei felice”. Ci incontriam­o, lui mi dice che gli piacerebbe lavorarci ma non sa dirmi quando».

E lei?

«Io rispondo che anche se non lo dovesse mai fare, io non lo darò a nessun altro».

La sua morte cosa ha significat­o per lei?

«C’è un avanti Cristo e un dopo Cristo. Nella vita di tutti noi esiste un momento preciso in cui avverti il prima e il dopo. Per me è stato quello».

Che è stato dopo?

«Un’altra cosa».

Perché ha scritto proprio sui Lehman?

«Per raccontare l’umanità della banca. Qualcosa sui Lehman per me è un libro pratico, un manuale per capire la nostra epoca».

Pratico?

«Sono laureato in archeologi­a egizia, tesi su La statuaria zoomorfa di Iside, perché volevo fare l’insegnante di greco e latino e papirologi­a mi sembrava più pratica rispetto a filologia; io cercavo la materia più pratica. Detesto l’intellettu­ale fine a se stesso».

L’intellettu­ale per lei è?

«Come il medico con lo stetoscopi­o entra in contatto col battito cardiaco di chi soffre, così l’intellettu­ale deve sentire il battito della società».

Lei come lo sente?

«Luisa, la mia compagna, dice che è impossibil­e venire a cena fuori con me. È vero, io mi distraggo, ascolto i discorsi dei tavoli accanto, e poi li so ripetere a memoria».

Perché lo fa?

«Reputo le vite degli altri formidabil­mente interessan­ti. Le faccio un esempio: se vado all’ufficio postale e non c’è gente, nessuno da ascoltare in coda, mi dispiace. Uno scrittore che non ascolta le storie degli altri è come un macellaio vegetarian­o».

L’ultima volta che ha origliato storie?

«Imbottigli­ato in autostrada per un incidente, fila chilometri­ca. A un certo punto scendiamo tutti dalle macchine. Dietro di me un camionista romeno che parla al telefono con la moglie italiana e si sfoga per la cena nella tale fattoria, una schifezza, il punto è che gli immigrati non sanno cucinare, soprattutt­o i romeni, spiega».

E poi?

«Quelli davanti tornavano da un matrimonio, appesi ai finestrini tenevano i vestiti eleganti da cerimonia. Appoggiati alla macchina, sono stati più di un’ora a commentare i parenti incontrati: com’è invecchiat­a Mara, e Giulio? Avrà preso minimo minimo trenta chili, sicuro per la moglie, l’ha mandato fuori di testa, poveretto, anche Luca però, quanto ha adesso, tredici quattordic­i anni? Troppo agitato, ha qualcosa che non va quel ragazzo...».

Lei che pensava?

«Mi sentivo felice: sulla strada, ad ascoltare i discorsi degli altri. Era una giornata di sole».

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