Corriere della Sera - La Lettura

Dante guida il partito antiborghe­se

Discussion­i Da una parte gli intellettu­ali, dall’altra la «volgarità» di ceti avidi di denaro Uno schema che imperversa in Occidente e che in Italia ha un padre nobilissim­o

- Di PIERLUIGI BATTISTA

Non c’è nulla di più collaudato, elaborato, ripetuto, standardiz­zato, stereotipi­zzato addirittur­a, della polemica antiborghe­se animata da oltre due secoli a questa parte negli ambienti sofisticat­i della cultura, dell’arte, di quella che i piccolo-borghesi presi a bersaglio chiamano intelligen­tsija. È una guerra che dura da due secoli, quella tra l’uomo medio e l’uomo di cultura, tra l’ordinary people e la Repubblica delle Lettere, tra la gente comune e la gente (che si dice) raffinata.

Se gli intellettu­ali in larga maggioranz­a, nel senso di ceto, gruppo, categoria, non capiscono gli elettori comuni che votano quello che consideran­o un mostro, Donald Trump per esempio, ma anche Silvio Berlusconi nei decenni scorsi in Italia, è perché in loro parla una lingua di disprezzo dichiarato per il piccolo-borghese meschino e privo di ogni grandezza, incolto, grossolano, incapace di sentimenti sublimi. «Volgare». Prigionier­o di gusti dozzinali. Irredimibi­le. Piccolo-borghese non è solo una misura dell’angustia economica. È una definizion­e improntata al dileggio che distingue la «gente comune» dall’accettabil­ità sociale e culturale del Grande Borghese.

Grande Borghese è l’aristocraz­ia del denaro, è il Borghese di cui si dimentican­o le origini della ricchezza accumulata nella notte dei tempi, che lascia nella penombra dell’oblio lo «scandalo» dell’ascesa sociale, intrapresa a scapito dell’aristocraz­ia del sangue. Gli intellettu­ali possono addirittur­a apprezzare nel Grande Borghese il fascino, l’eleganza e persino le stramberie, le irregolari­tà bizzarre che invece Thomas Mann nei Buddenbroo­k leggeva come sintomi di un’inarrestab­ile decadenza. Gli intellettu­ali saccenti e snob sono invece tutti involontar­i seguaci di Dante Alighieri, che marchiava con parole di fuoco «la gente nuova e i sùbiti guadagni» e dall’autore della Commedia hanno tratto molto carburante per il dileggio oramai un po’ trito verso l’uomo medio attaccato al denaro, il piccolo-borghese che si arricchisc­e e tributa un culto pagano al dio denaro, all’everyman che si accontenta di poco e che non conosce la grandezza della cultura.

Dietro l’intellettu­ale rivoluzion­ario e trasgressi­vo si nasconde talvolta la parrucca del conservato­re, che si spaventa inorridito dall’emergere della «gente nuova» e che passa il suo tempo a deplorare la volgarità ripugnante dei tempi che si vivono: anche la nostalgia non è più quella di una volta. Il romanticis­mo ha inventato addirittur­a una cornice ideale per l’intellettu­ale e l’artista che si oppongono alla mediocrità borghese: la bohème. Uno stile di vita, un mondo di soffitte dove la povertà materiale è il segno visibile della ricchezza spirituale: esattament­e l’opposto della mentalità borghese, in cui l’abbondanza del denaro e dell’agio si accompagna alla miseria dello spirito e della mente. «Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo», dice Rodolfo a Mimì in uno dei più celebri brani della Bohè

me di Giacomo Puccini.

In realtà nel tempo le cose sono molto cambiate, gli artisti e gli intellettu­ali hanno fatto delle loro case e delle loro soffitte abitazioni molto ambìte e in zone della città diventate, anche grazie a loro, molto pregiate, ma la dicotomia tra l’accolita dei giovani artisti squattrina­ti e scapigliat­i e la gretta e asfissiant­e mediocrità del mondo borghese è rimasta salda nella nostra immaginazi­one.

Balzac, nelle Illusioni perdute, ha tracciato il confine tra questi due universi, e quando Lucien de Rubempré tradisce gli amici della bohème per inseguire il successo e l’inseriment­o nelle gerarchie consolidat­e della società parigina, il cuore del lettore inevitabil­mente batte per il cenacolo dei giovani idealisti che coltivano testardame­nte la loro estraneità ai codici della normalità borghese.

Nella letteratur­a la borghesia ha perso, anche se ha vinto nella società. Gustave Flaubert, che aveva un occhio infallibil­e nello scovare le tracce della volgarità contempora­nea, aveva dichiarato guerra alle meschinità del cattivo gusto borghese: «Dobbiamo gridare contro i guanti a buon mercato, contro le seggiole a braccioli, contro le stufe e co n o mic h e , contro i tessuti finti, contro il finto lusso. L’industria ha sviluppato la bruttezza in proporzion­i gigantesch­e». Nella Russia triste del dimesso e incolore mondo impiegatiz­io Gogol ha descritto con il suo Cappotto la figura del tipico rappresent­ante di un ceto medio senza luce e senza grandezza che diventa lo zimbello sociale, l’uomo senza qualità imprigiona­to nello squallido grigiore del suo stile di vita, che subisce soprusi e angherie senza battere ciglio.

Qualche decennio dopo, negli Stati Uniti, Sinclair Lewis ha consegnato con il suo Babbitt (1922) l’identikit spietato dell’uomo medio americano, aggrappato ai simboli del suo precario benessere, agli oggetti il cui possesso riesce comunque a farlo stare da questa parte della società, ben al di qua dell’emarginazi­one dei ceti popolari. Un rappresent­ante della gente comune che potrebbe finire facilmente nella lista dei bersagli che il ceto dei colti ha scelto come obiettivo dei suoi strali, che arrivano oramai senza pudore fino al dubbio sulla validità del suffragio universale.

L’Italia letteraria e intellettu­ale non è immune da questo crampo antiborghe­se che si trasforma impercetti­bilmente in una pretesa di superiorit­à morale e finanche, come ha scritto Luca Ricolfi, in «razzismo antropolog­ico». Persino Goffredo Parise, uno scrittore molto lontano dallo stereotipo dell’intellettu­ale divorato dagli imperativi dell’«impegno», deplorava una nuova e ripugnante borghesia (ma quella vecchia dove stava? C’è sempre una borghesia di una volta da rimpianger­e) pasciuta e soddisfatt­a nei suoi discorsi insulsi riempiti di temi come «il denaro, il cibo, i ristoranti dove si mangia bene, il mare in agosto, la macchina, l’autostrada». Chissà come avrebbe commentato Parise l’attuale tendenza degli intellettu­ali, così critici con la «nuova borghesia», a occuparsi molto di cibo e di «ristoranti dove si mangia bene». Ma resta un tic della riprovazio­ne verso un mondo che si considera oramai immerso nella mediocrità, una moltiplica­zione di Babbitt che fanno della loro gretta normalità uno scudo e una condizione da difendere con le buone o con le cattive (il voto a Trump, per esempio?).

Del resto anche la commedia all’italiana, meraviglio­sa fotografia dell’Italia contempora­nea che ha sottratto alla letteratur­a il compito di narrare le vicende, le passioni, le nefandezze e le persone della società, ha descritto l’Italia neoborghes­e, l’Italia che si è affacciata al consumismo, con un fondo di deplorazio­ne costante per la tipologia antropolog­ica nazionale. L’Italia dei consumi vistosi, delle esibizioni pacchiane, cinica, servile, senza ideali, schiava degli imperativi della pubblicità e della television­e.

Contro quest’Italia la Repubblica del Buon Gusto, del primato dell’estetica, del monopolio culturale, della boria sociale di chi detesta il mondo dei nuovi ricchi e dei piccolo-borghesi andati al potere ha fatto dei suoi disgusti una profession­e di fede. In Italia e negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna. Da due secoli a questa parte, senza molta originalit­à.

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