Corriere della Sera - La Lettura
Dante guida il partito antiborghese
Discussioni Da una parte gli intellettuali, dall’altra la «volgarità» di ceti avidi di denaro Uno schema che imperversa in Occidente e che in Italia ha un padre nobilissimo
Non c’è nulla di più collaudato, elaborato, ripetuto, standardizzato, stereotipizzato addirittura, della polemica antiborghese animata da oltre due secoli a questa parte negli ambienti sofisticati della cultura, dell’arte, di quella che i piccolo-borghesi presi a bersaglio chiamano intelligentsija. È una guerra che dura da due secoli, quella tra l’uomo medio e l’uomo di cultura, tra l’ordinary people e la Repubblica delle Lettere, tra la gente comune e la gente (che si dice) raffinata.
Se gli intellettuali in larga maggioranza, nel senso di ceto, gruppo, categoria, non capiscono gli elettori comuni che votano quello che considerano un mostro, Donald Trump per esempio, ma anche Silvio Berlusconi nei decenni scorsi in Italia, è perché in loro parla una lingua di disprezzo dichiarato per il piccolo-borghese meschino e privo di ogni grandezza, incolto, grossolano, incapace di sentimenti sublimi. «Volgare». Prigioniero di gusti dozzinali. Irredimibile. Piccolo-borghese non è solo una misura dell’angustia economica. È una definizione improntata al dileggio che distingue la «gente comune» dall’accettabilità sociale e culturale del Grande Borghese.
Grande Borghese è l’aristocrazia del denaro, è il Borghese di cui si dimenticano le origini della ricchezza accumulata nella notte dei tempi, che lascia nella penombra dell’oblio lo «scandalo» dell’ascesa sociale, intrapresa a scapito dell’aristocrazia del sangue. Gli intellettuali possono addirittura apprezzare nel Grande Borghese il fascino, l’eleganza e persino le stramberie, le irregolarità bizzarre che invece Thomas Mann nei Buddenbrook leggeva come sintomi di un’inarrestabile decadenza. Gli intellettuali saccenti e snob sono invece tutti involontari seguaci di Dante Alighieri, che marchiava con parole di fuoco «la gente nuova e i sùbiti guadagni» e dall’autore della Commedia hanno tratto molto carburante per il dileggio oramai un po’ trito verso l’uomo medio attaccato al denaro, il piccolo-borghese che si arricchisce e tributa un culto pagano al dio denaro, all’everyman che si accontenta di poco e che non conosce la grandezza della cultura.
Dietro l’intellettuale rivoluzionario e trasgressivo si nasconde talvolta la parrucca del conservatore, che si spaventa inorridito dall’emergere della «gente nuova» e che passa il suo tempo a deplorare la volgarità ripugnante dei tempi che si vivono: anche la nostalgia non è più quella di una volta. Il romanticismo ha inventato addirittura una cornice ideale per l’intellettuale e l’artista che si oppongono alla mediocrità borghese: la bohème. Uno stile di vita, un mondo di soffitte dove la povertà materiale è il segno visibile della ricchezza spirituale: esattamente l’opposto della mentalità borghese, in cui l’abbondanza del denaro e dell’agio si accompagna alla miseria dello spirito e della mente. «Chi son? Sono un poeta. Che cosa faccio? Scrivo. E come vivo? Vivo», dice Rodolfo a Mimì in uno dei più celebri brani della Bohè
me di Giacomo Puccini.
In realtà nel tempo le cose sono molto cambiate, gli artisti e gli intellettuali hanno fatto delle loro case e delle loro soffitte abitazioni molto ambìte e in zone della città diventate, anche grazie a loro, molto pregiate, ma la dicotomia tra l’accolita dei giovani artisti squattrinati e scapigliati e la gretta e asfissiante mediocrità del mondo borghese è rimasta salda nella nostra immaginazione.
Balzac, nelle Illusioni perdute, ha tracciato il confine tra questi due universi, e quando Lucien de Rubempré tradisce gli amici della bohème per inseguire il successo e l’inserimento nelle gerarchie consolidate della società parigina, il cuore del lettore inevitabilmente batte per il cenacolo dei giovani idealisti che coltivano testardamente la loro estraneità ai codici della normalità borghese.
Nella letteratura la borghesia ha perso, anche se ha vinto nella società. Gustave Flaubert, che aveva un occhio infallibile nello scovare le tracce della volgarità contemporanea, aveva dichiarato guerra alle meschinità del cattivo gusto borghese: «Dobbiamo gridare contro i guanti a buon mercato, contro le seggiole a braccioli, contro le stufe e co n o mic h e , contro i tessuti finti, contro il finto lusso. L’industria ha sviluppato la bruttezza in proporzioni gigantesche». Nella Russia triste del dimesso e incolore mondo impiegatizio Gogol ha descritto con il suo Cappotto la figura del tipico rappresentante di un ceto medio senza luce e senza grandezza che diventa lo zimbello sociale, l’uomo senza qualità imprigionato nello squallido grigiore del suo stile di vita, che subisce soprusi e angherie senza battere ciglio.
Qualche decennio dopo, negli Stati Uniti, Sinclair Lewis ha consegnato con il suo Babbitt (1922) l’identikit spietato dell’uomo medio americano, aggrappato ai simboli del suo precario benessere, agli oggetti il cui possesso riesce comunque a farlo stare da questa parte della società, ben al di qua dell’emarginazione dei ceti popolari. Un rappresentante della gente comune che potrebbe finire facilmente nella lista dei bersagli che il ceto dei colti ha scelto come obiettivo dei suoi strali, che arrivano oramai senza pudore fino al dubbio sulla validità del suffragio universale.
L’Italia letteraria e intellettuale non è immune da questo crampo antiborghese che si trasforma impercettibilmente in una pretesa di superiorità morale e finanche, come ha scritto Luca Ricolfi, in «razzismo antropologico». Persino Goffredo Parise, uno scrittore molto lontano dallo stereotipo dell’intellettuale divorato dagli imperativi dell’«impegno», deplorava una nuova e ripugnante borghesia (ma quella vecchia dove stava? C’è sempre una borghesia di una volta da rimpiangere) pasciuta e soddisfatta nei suoi discorsi insulsi riempiti di temi come «il denaro, il cibo, i ristoranti dove si mangia bene, il mare in agosto, la macchina, l’autostrada». Chissà come avrebbe commentato Parise l’attuale tendenza degli intellettuali, così critici con la «nuova borghesia», a occuparsi molto di cibo e di «ristoranti dove si mangia bene». Ma resta un tic della riprovazione verso un mondo che si considera oramai immerso nella mediocrità, una moltiplicazione di Babbitt che fanno della loro gretta normalità uno scudo e una condizione da difendere con le buone o con le cattive (il voto a Trump, per esempio?).
Del resto anche la commedia all’italiana, meravigliosa fotografia dell’Italia contemporanea che ha sottratto alla letteratura il compito di narrare le vicende, le passioni, le nefandezze e le persone della società, ha descritto l’Italia neoborghese, l’Italia che si è affacciata al consumismo, con un fondo di deplorazione costante per la tipologia antropologica nazionale. L’Italia dei consumi vistosi, delle esibizioni pacchiane, cinica, servile, senza ideali, schiava degli imperativi della pubblicità e della televisione.
Contro quest’Italia la Repubblica del Buon Gusto, del primato dell’estetica, del monopolio culturale, della boria sociale di chi detesta il mondo dei nuovi ricchi e dei piccolo-borghesi andati al potere ha fatto dei suoi disgusti una professione di fede. In Italia e negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna. Da due secoli a questa parte, senza molta originalità.