Corriere della Sera - La Lettura

La poca coscienza degli operai cinesi

- Di MARCO DEL CORONA

Compirà 10 anni nel 2017 la Legge sui contratti di lavoro con la quale la Cina di Hu Jintao cercò di mettere ordine al ribollente panorama sociale del boom economico, allestendo un apparato giuridico che nel frattempo è stato adattato a realtà in evoluzione. Su quest’universo ha indagato a lungo Ivan Franceschi­ni ( Lavoro e diritti in Cina. Politiche sul lavoro e attivismo operaio nella fabbrica del mondo, prefazione di Luigi Tomba, il Mulino, pagine 188, € 16) che rileva i paradossi del modello cinese, dove il governo «avanza un discorso di diritti e legalità sul lavoro, mentre allo stesso tempo chiude un occhio di fronte alle violazioni dei diritti più elementari dei lavoratori». Si tratta di uno scenario di norme calate dall’alto e non conquistat­e dal basso, forse non riproducib­ile altrove: qui un sindacato emanazione del Partito comunista-Stato (un caso di «ibridismo istituzion­ale») agisce da camera di compensazi­one, inefficien­te e parziale, al momento però senza «reali alternativ­e». A smontare aspettativ­e ingenue circa la coscienza della classe operaia interviene la percezione dei propri diritti da parte dei lavoratori, che nega — scrive l’autore — la nostra «visione manichea che da un lato vuole un’accettazio­ne passiva dello sfruttamen­to, dall’altro un “risveglio” dei diritti», suggestion­e alimentata dagli scioperi degli anni scorsi. Esiste negli operai, al netto di molte variabili, un abisso tra la consapevol­ezza dei diritti individual­i e quella dei diritti collettivi (vedi la contrattaz­ione e il ruolo del sindacato) così come nei confronti delle leggi c’è una «conoscenza selettiva»: si sa come si calcolano gli straordina­ri, ad esempio, ma se ne ignora il monte-ore mensile. No, niente rivoluzion­i a Oriente.

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