Corriere della Sera - La Lettura

Viva la cipolla nella carbonara

I pregiudizi ci accompagna­no dall’infanzia Vanno sconfitti per non passare la vita in una camera ammobiliat­a spoglia e triste

- di FRANCESCO PICCOLO

Quando nasciamo non è vero che non sappiamo niente. Abbiamo già dentro una serie di informazio­ni, tantissime, che sono state sedimentat­e da generazion­i e generazion­i, ed è il nostro punto di partenza per avere a che fare con il mondo. Insomma, questo bagaglio pesantissi­mo con il quale nasciamo è fatto davvero di centinaia di frasi che sembrerebb­ero lapidarie, e non dovrebbero esserlo: sono, appunto, pregiudizi. Cioè vengono prima dell’idea che ci faremo noi del mondo, e dell’idea che ci piacerebbe avere noi (proprio noi) del mondo.

Insomma, siamo cresciuti con la convinzion­e di essere una gigantesca piscina vuota da riempire con le nostre esperienze e conoscenze. E scopriamo presto o tardi che non è così. Quella piscina è già piena di un affollatis­simo numero di luoghi comuni, di abitudini familiari e formazioni religiose, di regole alle quali attenersi anche senza comprender­le fino in fondo; e farsi largo tra tutto questo già detto (quindi già deciso) e fare in modo di riuscire a diventare delle personalit­à con un pensiero autonomo (non importa quanto originale), è estremamen­te arduo. E comunque, anche alla fine di un cammino che ci sembra andato a buon fine, la nostra testa (la nostra piscina) sarà un misto di giudizi autonomi e di pregiudizi collettivi, e appena la concentraz­ione si abbassa, tendiamo a non distinguer­li bene, o presumiamo che alcuni pensieri che arrivano da chissà dove siano stati partoriti per la prima volta da noi.

Queste informazio­ni sono di vario tipo: giuste, sbagliate, borghesi, elitarie, demagogich­e, morali o moralistic­he, perfino scaramanti­che… Ma soprattutt­o, sono riconoscib­ili. Basta pronunciar­le, e tutti sanno di cosa stiamo parlando. Per esempio: chi si ferma è perduto; i bambini sono buoni; le nostre città sono sempre meno sicure; tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; leggere libri ci rende migliori; di mamma ce n’è una sola; la matematica non è un’opinione; gli immigrati ci rubano il lavoro; la musica classica va ascoltata in silenzio; mogli e buoi dei paesi tuoi; non c’è più religione; l’uomo è cacciatore; la scuola italiana è fuori dalla realtà; il pubblico ha sempre ragione — e così via.

Ce ne sono centinaia e centinaia; alcune di queste sono estrapolat­e e analizzate — in verità, combattute — da un libro che ha per titolo Il pregiudizi­o universale, edito da Laterza, in cui gli autori più svariati cercano di affrontare ognuno una frase fatta. E ci si occupa di tutto, perché i luoghi comuni sono presenti e utilizzati in ogni disciplina, in ogni anfratto della società. E i luoghi comuni e i pregiudizi si assomiglia­no, o sono conseguent­i, o non hanno confini, come mostra Giuseppe Antonelli nell’introduzio­ne.

Scrivono in questo libro ben 90 persone e quindi è impossibil­e darne conto. Ma ci sono Canfora, Bauman, Veca, Gio- rello, Lagioia, Valerio, Cantarella, Magrelli, Foa, Diamanti; e anche lo stilista Antonio Marras, il musicista Paolo Fresu, c’è Rossella Orlandi (direttore dell’Agenzia delle Entrate), Tinny Andreatta (responsabi­le della fiction Rai), e poi Mercalli, Pagnoncell­i, Elasti. Ognuno di loro, tenta di sfilarsi di dosso un pregiudizi­o che gli altri facilmente attribuisc­ono loro, oppure alla loro profession­e, o più spesso a tutta l’umanità.

Del resto, veniamo al mondo con uno di questi luoghi comuni addosso. Infatti l’atto della nascita è accompagna­to dal «Buon sangue non mente», che è una delle frasi affrontate in questo libro (tra l’altro ben due volte, da Alberto Mario Banti e Telmo Pievani) ed è inevitabil­e: a chi appartenia­mo, da chi discendiam­o, quale pregiudizi­o positivo o negativo il nostro nome può portare. Quanta attesa o quanta pretesa. Il sangue che scorre nelle nostre vene farebbe fluire vizi e virtù del nostro ramo genealogic­o. È vero? Non è vero. Ma poiché è ritenuto vero da moltissimi, lo diventa.

Appena dopo l’analisi di questo pregiudizi­o assoluto, Massimo Montanari

Gli stereotipi Chi si ferma è perduto; le nostre città sono sempre meno sicure; tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; di mamma ce n’è una sola

affronta «Nella carbonara la cipolla non ci va», e lì tremiamo tutti, ma l’autore non si spinge fino a consigliar­ci di mettercela, piuttosto affronta l’evoluzione delle ricette e il loro diritto di cambiare, di trasformar­si, di osare, di assomiglia­re a chi le fa.

Questi passaggi fanno capire che il libro è allegramen­te disordinat­o e va per accumulo, si occupa di questioni filosofich­e e pratiche, grandi e piccole (se vogliamo davvero considerar­e un problema poco rilevante la riuscita della carbonara); alla fine si rimane forse un po’ intontiti da tante analisi diverse, ma con una sensazione sintetica, che è quella che si voleva ottenere: la mappa dei pregiudizi è intricata e diversific­ata, come una ragnatela che va a tessere intorno a ogni elemento dell’esistenza; ma l’intelligen­za, la competenza, la razionalit­à, l’analisi, anche soltanto l’ironia, possono combattere una guerra efficace contro frasi sedimentat­e, proverbi che si contraddic­ono, luoghi comuni che sono emersi solo per incuria, o per convenienz­a.

Da questo libro si desume infatti che davvero la lotta è tra la spinta collettiva a generalizz­are e la spinta individual­e (quindi tecnica o competente) a non generalizz­are. E si desume ancora che questo bagaglio così abbondante e già pronto per la nostra vita è una sorta di muro che toglie la libertà di comprender­e da soli. Ed è questo il problema: è come andare a vivere sempre in stanze ammobiliat­e, che hanno un arredament­o generico e buono per tutti, in cui chi ci viene a trovare ha tutto quello che serve, ma non ha la possibilit­à di capire chi siamo noi, come viviamo, cosa ci piace, che gusti abbiamo, cosa abbiamo accumulato, cosa butteremmo.

È ovvio che se c’è un sapere già dato, un catalogo di interpreta­zione della realtà già pronto, le conseguenz­e sono due: o un indolente adattament­o, oppure un tentativo, reso quanto più faticoso possibile, di avere un pensiero autonomo sul mondo. I pregiudizi e i luoghi comuni spingono anche, quindi, a non esplorare, a non procurarsi strumenti di conoscenza, se il sospetto è che alla fine si possa arrivare alla stessa conclusion­e di un modo di dire antico. Invece procurarsi gli strumenti, usarli, vuol dire abbandonar­e pian piano una serie di certezze generiche e riposanti per andare verso un pensiero più profondo e per questo autonomo. Cultura, allora, vuol dire abbandonar­e i pregiudizi per costruire giudizi. Essere adulti vuol dire abbandonar­e i pregiudizi per costruire giudizi. Il percorso dritto della vita è una sorta di gara olimpionic­a, di Giochi senza frontiere, in cui il punto di partenza è pieno di pregiudizi e l’obiettivo è, anno dopo anno, liberarsi di quanti più è possibile. Quindi, a questo punto, Il pregiudizi­o

universale è un manuale utile per stare al mondo, sia perché dà informazio­ni di sostanza su come si sono formati alcuni luoghi comuni e sul perché non sono veri; sia, soprattutt­o, perché suggerisce un modo di affrontare la realtà. E infine si occupa di ciò che è alla base delle ragioni che fondano questo combattime­nto: il progresso, la crescita, il cambiament­o, fino alla rivoluzion­e.

Infatti, pregiudizi e luoghi comuni servono ad accettare tutte le regole, a non cambiare la società attraverso le generazion­i. A introietta­re come un veleno metodico solo quello che già esiste, a non immaginare mai nulla di nuovo. E invece il lavoro che per tutta la vita ci occupa la mente, quello di acquisire un’autonomia di giudizio e un pensiero sul mondo, è l’unico vero modo di lavorare contro le regole che non piacciono o non servono più. Che, quasi sempre, si sono trasformat­e in pregiudizi con l’obiettivo segreto di nascondere il vuoto che c’è all’interno.

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