Corriere della Sera - La Lettura
Viva la cipolla nella carbonara
I pregiudizi ci accompagnano dall’infanzia Vanno sconfitti per non passare la vita in una camera ammobiliata spoglia e triste
Quando nasciamo non è vero che non sappiamo niente. Abbiamo già dentro una serie di informazioni, tantissime, che sono state sedimentate da generazioni e generazioni, ed è il nostro punto di partenza per avere a che fare con il mondo. Insomma, questo bagaglio pesantissimo con il quale nasciamo è fatto davvero di centinaia di frasi che sembrerebbero lapidarie, e non dovrebbero esserlo: sono, appunto, pregiudizi. Cioè vengono prima dell’idea che ci faremo noi del mondo, e dell’idea che ci piacerebbe avere noi (proprio noi) del mondo.
Insomma, siamo cresciuti con la convinzione di essere una gigantesca piscina vuota da riempire con le nostre esperienze e conoscenze. E scopriamo presto o tardi che non è così. Quella piscina è già piena di un affollatissimo numero di luoghi comuni, di abitudini familiari e formazioni religiose, di regole alle quali attenersi anche senza comprenderle fino in fondo; e farsi largo tra tutto questo già detto (quindi già deciso) e fare in modo di riuscire a diventare delle personalità con un pensiero autonomo (non importa quanto originale), è estremamente arduo. E comunque, anche alla fine di un cammino che ci sembra andato a buon fine, la nostra testa (la nostra piscina) sarà un misto di giudizi autonomi e di pregiudizi collettivi, e appena la concentrazione si abbassa, tendiamo a non distinguerli bene, o presumiamo che alcuni pensieri che arrivano da chissà dove siano stati partoriti per la prima volta da noi.
Queste informazioni sono di vario tipo: giuste, sbagliate, borghesi, elitarie, demagogiche, morali o moralistiche, perfino scaramantiche… Ma soprattutto, sono riconoscibili. Basta pronunciarle, e tutti sanno di cosa stiamo parlando. Per esempio: chi si ferma è perduto; i bambini sono buoni; le nostre città sono sempre meno sicure; tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; leggere libri ci rende migliori; di mamma ce n’è una sola; la matematica non è un’opinione; gli immigrati ci rubano il lavoro; la musica classica va ascoltata in silenzio; mogli e buoi dei paesi tuoi; non c’è più religione; l’uomo è cacciatore; la scuola italiana è fuori dalla realtà; il pubblico ha sempre ragione — e così via.
Ce ne sono centinaia e centinaia; alcune di queste sono estrapolate e analizzate — in verità, combattute — da un libro che ha per titolo Il pregiudizio universale, edito da Laterza, in cui gli autori più svariati cercano di affrontare ognuno una frase fatta. E ci si occupa di tutto, perché i luoghi comuni sono presenti e utilizzati in ogni disciplina, in ogni anfratto della società. E i luoghi comuni e i pregiudizi si assomigliano, o sono conseguenti, o non hanno confini, come mostra Giuseppe Antonelli nell’introduzione.
Scrivono in questo libro ben 90 persone e quindi è impossibile darne conto. Ma ci sono Canfora, Bauman, Veca, Gio- rello, Lagioia, Valerio, Cantarella, Magrelli, Foa, Diamanti; e anche lo stilista Antonio Marras, il musicista Paolo Fresu, c’è Rossella Orlandi (direttore dell’Agenzia delle Entrate), Tinny Andreatta (responsabile della fiction Rai), e poi Mercalli, Pagnoncelli, Elasti. Ognuno di loro, tenta di sfilarsi di dosso un pregiudizio che gli altri facilmente attribuiscono loro, oppure alla loro professione, o più spesso a tutta l’umanità.
Del resto, veniamo al mondo con uno di questi luoghi comuni addosso. Infatti l’atto della nascita è accompagnato dal «Buon sangue non mente», che è una delle frasi affrontate in questo libro (tra l’altro ben due volte, da Alberto Mario Banti e Telmo Pievani) ed è inevitabile: a chi apparteniamo, da chi discendiamo, quale pregiudizio positivo o negativo il nostro nome può portare. Quanta attesa o quanta pretesa. Il sangue che scorre nelle nostre vene farebbe fluire vizi e virtù del nostro ramo genealogico. È vero? Non è vero. Ma poiché è ritenuto vero da moltissimi, lo diventa.
Appena dopo l’analisi di questo pregiudizio assoluto, Massimo Montanari
Gli stereotipi Chi si ferma è perduto; le nostre città sono sempre meno sicure; tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare; di mamma ce n’è una sola
affronta «Nella carbonara la cipolla non ci va», e lì tremiamo tutti, ma l’autore non si spinge fino a consigliarci di mettercela, piuttosto affronta l’evoluzione delle ricette e il loro diritto di cambiare, di trasformarsi, di osare, di assomigliare a chi le fa.
Questi passaggi fanno capire che il libro è allegramente disordinato e va per accumulo, si occupa di questioni filosofiche e pratiche, grandi e piccole (se vogliamo davvero considerare un problema poco rilevante la riuscita della carbonara); alla fine si rimane forse un po’ intontiti da tante analisi diverse, ma con una sensazione sintetica, che è quella che si voleva ottenere: la mappa dei pregiudizi è intricata e diversificata, come una ragnatela che va a tessere intorno a ogni elemento dell’esistenza; ma l’intelligenza, la competenza, la razionalità, l’analisi, anche soltanto l’ironia, possono combattere una guerra efficace contro frasi sedimentate, proverbi che si contraddicono, luoghi comuni che sono emersi solo per incuria, o per convenienza.
Da questo libro si desume infatti che davvero la lotta è tra la spinta collettiva a generalizzare e la spinta individuale (quindi tecnica o competente) a non generalizzare. E si desume ancora che questo bagaglio così abbondante e già pronto per la nostra vita è una sorta di muro che toglie la libertà di comprendere da soli. Ed è questo il problema: è come andare a vivere sempre in stanze ammobiliate, che hanno un arredamento generico e buono per tutti, in cui chi ci viene a trovare ha tutto quello che serve, ma non ha la possibilità di capire chi siamo noi, come viviamo, cosa ci piace, che gusti abbiamo, cosa abbiamo accumulato, cosa butteremmo.
È ovvio che se c’è un sapere già dato, un catalogo di interpretazione della realtà già pronto, le conseguenze sono due: o un indolente adattamento, oppure un tentativo, reso quanto più faticoso possibile, di avere un pensiero autonomo sul mondo. I pregiudizi e i luoghi comuni spingono anche, quindi, a non esplorare, a non procurarsi strumenti di conoscenza, se il sospetto è che alla fine si possa arrivare alla stessa conclusione di un modo di dire antico. Invece procurarsi gli strumenti, usarli, vuol dire abbandonare pian piano una serie di certezze generiche e riposanti per andare verso un pensiero più profondo e per questo autonomo. Cultura, allora, vuol dire abbandonare i pregiudizi per costruire giudizi. Essere adulti vuol dire abbandonare i pregiudizi per costruire giudizi. Il percorso dritto della vita è una sorta di gara olimpionica, di Giochi senza frontiere, in cui il punto di partenza è pieno di pregiudizi e l’obiettivo è, anno dopo anno, liberarsi di quanti più è possibile. Quindi, a questo punto, Il pregiudizio
universale è un manuale utile per stare al mondo, sia perché dà informazioni di sostanza su come si sono formati alcuni luoghi comuni e sul perché non sono veri; sia, soprattutto, perché suggerisce un modo di affrontare la realtà. E infine si occupa di ciò che è alla base delle ragioni che fondano questo combattimento: il progresso, la crescita, il cambiamento, fino alla rivoluzione.
Infatti, pregiudizi e luoghi comuni servono ad accettare tutte le regole, a non cambiare la società attraverso le generazioni. A introiettare come un veleno metodico solo quello che già esiste, a non immaginare mai nulla di nuovo. E invece il lavoro che per tutta la vita ci occupa la mente, quello di acquisire un’autonomia di giudizio e un pensiero sul mondo, è l’unico vero modo di lavorare contro le regole che non piacciono o non servono più. Che, quasi sempre, si sono trasformate in pregiudizi con l’obiettivo segreto di nascondere il vuoto che c’è all’interno.