Corriere della Sera - La Lettura
E Marcovaldo scopre che il mondo è fatto di schiavi
Storie La realtà di Arduino e Lipperini
Questo libro di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini avrebbe potuto intitolarsi anche «Invisibili». Perché gli Schiavi di un dio minore (Utet) di cui racconta non li vediamo, un po’ perché non vogliamo vederli, un po’ perché non vogliono farsi vedere. Si possono però raccontare e così, attraverso il racconto, possiamo provare a riscattarli, facendoli venire alla luce, facendo affiorare un mondo oscuro in cui «la parola “lavoro” è svuotata di significato, e ne nasconde uno solo: purché sia».
Intanto, i loro nomi: Paola, Zaccaria, Shila, Tian Yu, Sun, Jeff… Poi le loro storie, che ci riguardano anche quando sono lontane. Ci riguardano perché è grazie alla miseria delle operaie cinesi o bengalesi, pagate a cifre da fame, che i beni di consumo disponibili nei nostri negozi cittadini hanno prezzi irrisori, e le scarpe cucite in Cambogia per 50 centesimi l’ora ci diventano accessibili. È grazie allo sfruttamento negriero inflitto nelle mega aziende del commercio elettronico (dove un lavoratore può camminare per 17 chilometri nel turno di notte cercando di non sprecare il suo tempo per le funzioni fisiologiche) che possiamo godere delle magie dell’acquisto digitale.
Questo lo sappiamo ma non lo vediamo e il non vederlo ci rende, in qualche misura, incolpevoli. Ora lo possiamo «vedere» leggendo le storie di lavoro ricostruite da Arduino e Lipperini, che così denunciano la sfiducia nel mondo globale e gli inganni della modernità liquida proprio mentre dichiarano la loro estrema fiducia nella narrazione. Non basta conoscere i numeri (i 35,8 milioni di schiavi nel mondo dichiarati dal « Global Slavery Index » non considerano la schiavitù dei sottopagati): bisogna entrare, per quanto possibile, nelle vite stritolate dal nuovo schiavismo. E nelle morti. Qui e altrove. Lo diceva già il vecchio Tolstoj e potrebbe ripeterlo oggi: «La schiavitù c’è sempre perché gli uomini continuano come prima a considerare una cosa utile, buona e giusta sfruttare il lavoro degli altri uomini. E hanno bisogno di controllarli».
Anche questo, più o meno, lo sapevamo, come sapevamo del disprezzo, nel Nuovo Mondo, della formazione culturale e scolastica. Ma andate a leggervi la storia della bracciante di 49 anni consumata dal caporalato nei campi di Andria, dove raccoglieva uva (si chiama «acinellatura» ed è un lavoro durissimo) per 257 euro al mese: Paola esce di casa alle 2 del mattino per andare a prendere il pullman (la sua giornata dura fino alle 6 del pomeriggio) e andare a morire di sfinimento il 15 luglio 2015. Anche il tunisino Zaccaria e il sudanese Mohammed sono morti raccogliendo i frutti della terra a Polignano e a Nardò.
L’instabilità ti mette sotto ricatto costringendoti ad accettare tutto, ad accontentarti in attesa di qualcosa che non verrà. E poi ci sono gli schiavi intellettuali (quelli che lavorano per una miseria dentro, anzi fuori, case editrici e giornali) e gli schiavi delle piattaforme digitali, cioè non del vecchio lavoro agricolo ma dei centri della modernità sfavillante che promette ascesa sociale ed economica mentre perpetua l’umiliazione: il «bazar di braccia low-cost del futuro», dove dominano gli algoritmi e dove il controllo è una rete di sorveglianza onnipresente che al di là di ogni immaginazione (e retorica) ha realizzato gli scenari distopici di Orwell e di Huxley.
Questo però, a scanso di equivoci, «non è un saggio ma una storia che ne racconta altre» ci avvertono gli autori. E fanno bene. Schiavi di un dio minore va letto come una narrazione della contemporaneità, con i suoi interni domestici e le sue vite quotidiane (talvolta soltanto ipotizzabili per sforzo di empatia); parte da premesse antropologiche ma non va letto come un’analisi sociologica, anche se non mancano le pagine di riflessione o di denuncia, per esempio contro i guru della new economy che lanciano facili appelli all’ottimismo: vedi alla voce Steve Jobs con il famoso «siate affamati, siate folli». Le tante storie di schiavitù sono incorniciate in una sorta di macroracconto, che è la passeggiata del mattino di un Marcovaldo dei nostri giorni, spaesato dentro una metropoli, che riflettendo sulla propria precarietà esistenziale e guardandosi intorno scopre di essere precipitato, quasi a sua insaputa, in un mondo estraneo e ostile, perché il mondo che conosceva (o pensava di conoscere) è improvvisamente scomparso, volatilizzato, pur essendo pieno di cose.