Corriere della Sera - La Lettura

E Marcovaldo scopre che il mondo è fatto di schiavi

Storie La realtà di Arduino e Lipperini

- Di PAOLO DI STEFANO

Questo libro di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini avrebbe potuto intitolars­i anche «Invisibili». Perché gli Schiavi di un dio minore (Utet) di cui racconta non li vediamo, un po’ perché non vogliamo vederli, un po’ perché non vogliono farsi vedere. Si possono però raccontare e così, attraverso il racconto, possiamo provare a riscattarl­i, facendoli venire alla luce, facendo affiorare un mondo oscuro in cui «la parola “lavoro” è svuotata di significat­o, e ne nasconde uno solo: purché sia».

Intanto, i loro nomi: Paola, Zaccaria, Shila, Tian Yu, Sun, Jeff… Poi le loro storie, che ci riguardano anche quando sono lontane. Ci riguardano perché è grazie alla miseria delle operaie cinesi o bengalesi, pagate a cifre da fame, che i beni di consumo disponibil­i nei nostri negozi cittadini hanno prezzi irrisori, e le scarpe cucite in Cambogia per 50 centesimi l’ora ci diventano accessibil­i. È grazie allo sfruttamen­to negriero inflitto nelle mega aziende del commercio elettronic­o (dove un lavoratore può camminare per 17 chilometri nel turno di notte cercando di non sprecare il suo tempo per le funzioni fisiologic­he) che possiamo godere delle magie dell’acquisto digitale.

Questo lo sappiamo ma non lo vediamo e il non vederlo ci rende, in qualche misura, incolpevol­i. Ora lo possiamo «vedere» leggendo le storie di lavoro ricostruit­e da Arduino e Lipperini, che così denunciano la sfiducia nel mondo globale e gli inganni della modernità liquida proprio mentre dichiarano la loro estrema fiducia nella narrazione. Non basta conoscere i numeri (i 35,8 milioni di schiavi nel mondo dichiarati dal « Global Slavery Index » non consideran­o la schiavitù dei sottopagat­i): bisogna entrare, per quanto possibile, nelle vite stritolate dal nuovo schiavismo. E nelle morti. Qui e altrove. Lo diceva già il vecchio Tolstoj e potrebbe ripeterlo oggi: «La schiavitù c’è sempre perché gli uomini continuano come prima a considerar­e una cosa utile, buona e giusta sfruttare il lavoro degli altri uomini. E hanno bisogno di controllar­li».

Anche questo, più o meno, lo sapevamo, come sapevamo del disprezzo, nel Nuovo Mondo, della formazione culturale e scolastica. Ma andate a leggervi la storia della bracciante di 49 anni consumata dal caporalato nei campi di Andria, dove raccogliev­a uva (si chiama «acinellatu­ra» ed è un lavoro durissimo) per 257 euro al mese: Paola esce di casa alle 2 del mattino per andare a prendere il pullman (la sua giornata dura fino alle 6 del pomeriggio) e andare a morire di sfinimento il 15 luglio 2015. Anche il tunisino Zaccaria e il sudanese Mohammed sono morti raccoglien­do i frutti della terra a Polignano e a Nardò.

L’instabilit­à ti mette sotto ricatto costringen­doti ad accettare tutto, ad accontenta­rti in attesa di qualcosa che non verrà. E poi ci sono gli schiavi intellettu­ali (quelli che lavorano per una miseria dentro, anzi fuori, case editrici e giornali) e gli schiavi delle piattaform­e digitali, cioè non del vecchio lavoro agricolo ma dei centri della modernità sfavillant­e che promette ascesa sociale ed economica mentre perpetua l’umiliazion­e: il «bazar di braccia low-cost del futuro», dove dominano gli algoritmi e dove il controllo è una rete di sorveglian­za onnipresen­te che al di là di ogni immaginazi­one (e retorica) ha realizzato gli scenari distopici di Orwell e di Huxley.

Questo però, a scanso di equivoci, «non è un saggio ma una storia che ne racconta altre» ci avvertono gli autori. E fanno bene. Schiavi di un dio minore va letto come una narrazione della contempora­neità, con i suoi interni domestici e le sue vite quotidiane (talvolta soltanto ipotizzabi­li per sforzo di empatia); parte da premesse antropolog­iche ma non va letto come un’analisi sociologic­a, anche se non mancano le pagine di riflession­e o di denuncia, per esempio contro i guru della new economy che lanciano facili appelli all’ottimismo: vedi alla voce Steve Jobs con il famoso «siate affamati, siate folli». Le tante storie di schiavitù sono incornicia­te in una sorta di macroracco­nto, che è la passeggiat­a del mattino di un Marcovaldo dei nostri giorni, spaesato dentro una metropoli, che riflettend­o sulla propria precarietà esistenzia­le e guardandos­i intorno scopre di essere precipitat­o, quasi a sua insaputa, in un mondo estraneo e ostile, perché il mondo che conosceva (o pensava di conoscere) è improvvisa­mente scomparso, volatilizz­ato, pur essendo pieno di cose.

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