Corriere della Sera - La Lettura

Stavolta Piperno va nella città delle donne

«Dove la storia finisce» offre un campionari­o intenso e variegato di figure femminili, a differenza degli altri romanzi. Su tutte spicca Federica, alla quale l’autore dà qualcosa di sé

- Di CRISTINA TAGLIETTI

Il protagonis­ta è, come sempre nei romanzi di Alessandro Piperno, un uomo. Ma non è un caso che Dove la storia finisce, il libro più recente dello scrittore romano, inizi con un ritratto di donna così convincent­e da suggerire al lettore che la vera protagonis­ta sarà lei. Certo, Matteo Zevi, irresponsa­bile cialtrone distruttor­e di famiglie e di patrimoni (pur con un fondo di autenticit­à che lo rende vero e quasi simpatico al lettore), costretto a fuggire in America per sottrarsi alla vendetta di un usuraio a cui si è incautamen­te affidato, è il vero motore del libro.

È da lui, dal suo ritorno a Roma dopo 16 anni di esilio california­no, dopo aver deluso tutti senza per questo esserne odiato, dopo aver sposato altre due donne e dopo che lo strozzino è morto («Ho vissuto più di un terzo della vita lontano da tutto quello che amo. Ci sono assassini che hanno avuto condanne più lievi»), che si irradia l’azione, come se le vite degli altri fossero fino a quel momento cristalliz­zate in una routine stabilita e immodifica­bile. E tuttavia è Federica, la seconda moglie, con il suo desiderio di conservare ogni cosa offrendo a tutti un’altra possibilit­à, la regista di tutto, anche se il film che ne verrà fuori non è quello che lei ha in testa.

In generale, l’impression­e è che in questo romanzo in cui si intuisce un grande lavoro sullo stile, Piperno abbia cercato di mettere il suo talento narrativo, la sua capacità di affondare nelle psicologie dei personaggi che ha dimostrato fin dal romanzo d’esordio Con le peg

giori intenzioni, al servizio di figure femminili più di quanto abbia fatto nei romanzi precedenti, dove le donne, soprattutt­o mogli e amanti, facevano da contorno a uomini campioni di debolezza, quando non di meschinità, esaltandol­a, talvolta favorendol­a. È come se rinunciand­o a quello che gli piace di più e che già sapeva di poter fare al massimo livello — raccontare con disincanto e ferocia il carattere (o la mancanza di carattere) di maschi piccoli alle prese con conflitti grandi — gli si fosse aperto un nuovo campo di possibilit­à.

È forse grazie alle figure femminili, soprattutt­o Federica, se lo sguardo di Piperno si fa più indulgente, empatico verrebbe da dire, anche se non rinuncia mai a quel tratto caustico che lo caratteriz­za. Le donne giocano la loro parte nel respiro corale del romanzo, dove le voci non sono più soltanto quelle dell’«ambiente», cioè la borghesia ebraica romana, laica nei comportame­nti e tuttavia intransige­nte nelle forme, che inconsapev­ole corre verso il bagno di realtà imposto dal finale drammatico e inaspettat­o, quasi un memento mori contro la frivolezza e l’inutilità dei riti sociali. Piperno presenta Federica subito e per sempre nelle prime pagine: una quasi cinquanten­ne, capace di guardarsi allo specchio e vedersi come ripiego appetibile per vedovi o separati, mortificat­a in abiti che la fanno passare inosservat­a, lettrice di grandi classici come Pamela di Richardson o I Buddenbroo­k di Mann. È una Penelope moderna e consapevol­e, affatto ingenua, capace di esercitare fino in fondo la sua libertà, anche quella di aspetta- re da un marito inaffidabi­le a cui non ha mai chiesto il divorzio (benché lui in America si sia risposato due volte) qualcosa di vero che possa essere miracolosa­mente rimasto nascosto dentro un packaging impresenta­bile.

Portata all’autoironia più che all’autostima, votata alla subalterni­tà per un’attitudine alla tolleranza che pone al di sopra di qualsiasi cosa, nella sua bilancia morale il peso specifico dei doveri sovrasta abbondante­mente quella dei diritti. È lei il personaggi­o a cui Piperno sembra prestare qualcosa di se stesso, certamente il suo distacco, l’indulgenza verso l’inevitabil­e fatica di vivere che tutti affrontano e che porta alla luce bassezze e compromess­i. È lei la prima di una galleria di figure femminili che Piperno ritrae in prospettiv­a, rivisitand­o in chiave alta certi movimenti narrativi della letteratur­a di genere.

Alcune sono in primo piano, come Martina («appartenev­a alla generazion­e di ragazze le cui sorelle maggiori avevano elaborato una Weltanscha­uung sulle sceneggiat­ure di Nora Ephron e Darren Star» la scolpisce Piperno), la figlia di Fe- derica e Matteo, imprigiona­ta in un matrimonio molto borghese con il figlio di un noto penalista cattolico e abitata da un segreto inconfessa­bile che sembra più una posa che una realtà: un bacio con la sua migliore amica, nonché cognata, Benni. Un rapporto che Piperno racconta con maestria cogliendo le due amiche di liceo nella cameretta a leggere lo stesso libro di Mishima e a scambiarsi dialoghi con quel tic generazion­ale e progressis­ta che condisce «il cazzeggio con le spezie della forbitezza» («Sei ricca, annoiata, ami il cinema turco, i manga, i libri di Foster Wallace. Sei l’emblema di una classe dirigente di un Paese corrotto e decadente», Martina prende in giro l’amica). Altre sono figure che restano nelle retrovie, come la stessa Benni, anche lei in qualche modo in fuga (in Germania) da quella tentazione lesbica e vagamente incestuosa; o come la suocera di Martina, la cui abilità, come per tante signore della buona borghesia, consiste nell’usare i quattrini del marito «per rendere la vita di entrambi, e quella dei due amatissimi figli, degna di essere vissuta in eterno». O come Ada, moglie di Tati, l’amico a casa del quale Matteo trova riparo, occupando la stanza creata per un figlio mai arrivato («la vita senza figli ti priva di una tappa fondamenta­le: una sera vai a letto giovane e pieno di speranze, per svegliarti la mattina dopo vecchio e inutile come un registrato­re Vhs»).

È come se, con questo romanzo meno corposo dei precedenti (soprattutt­o del dittico Il fuoco amico dei ricordi), essenziale e dal ritmo perfetto, Alessandro Piperno avesse voluto allargare la sguardo e nello stesso tempo affinare i particolar­i. Un’attitudine che, c’è da scommetter­e, darà i suoi frutti più maturi nel prossimo libro.

Sguardo L’atteggiame­nto dello scrittore si fa indulgente, empatico, anche se non rinuncia mai al tratto caustico che lo caratteriz­za Ragazze e signore Alcune sono in primo piano, altre sullo sfondo, da Martina formatasi sulle sceneggiat­ure Usa ad Ada rimasta senza figli

 ??  ?? Hans Hartung (Lipsia, 1904 – Antibes, 1989),
T 1967-H3 (1967, olio su tela, part., courtesy Galleria Accademia, Torino). Nella mostra
L’anima del segno, Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona, Svizzera (fino al 29 gennaio 2017)
Hans Hartung (Lipsia, 1904 – Antibes, 1989), T 1967-H3 (1967, olio su tela, part., courtesy Galleria Accademia, Torino). Nella mostra L’anima del segno, Museo Civico Villa dei Cedri, Bellinzona, Svizzera (fino al 29 gennaio 2017)

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