Corriere della Sera - La Lettura
Michon mette insieme sì e no (ma questo gioco forse è finito)
Di Pierre Michon (Châtelus-le-Marcheix, Francia, 1945) in italiano c’erano due libri: Padroni e servitori del 1990, tradotto nel 1994 (Guanda), e Rimbaud il figlio del 1991, tradotto nel 2005 (Mavida). Non avevano ottenuto udienza. Lo stesso Vite minuscole, che è del 1984 e che Paolo Zanotti nel suo Dopo il primato. La letteratura francese dal 1968 a oggi (Laterza) annunciava nel 2011, viene pubblicato solo adesso da Adelphi. Stavolta il consenso è stato pari allo statuto di cui Michon gode in Francia o presso i nostri studiosi, dallo stesso Zanotti a Pierluigi Pellini.
Personalmente ho cominciato a leggere da Padroni e servitori. Ma, dovrei dir meglio, dal primo dei quattro testi raccolti in questo libro: Vita di Joseph Roulin. Finito questo racconto pensai di andare avanti e di scriverne. Tra l’altro (ancora non lo sapevo) Michon lo aveva pubblicato nel 1988 come testo a sé, in sé compiuto e autonomo. Senza aver letto Vite minuscole, libro del debutto, è stato naturale pensarlo nella sua scia: non era «minuscola» la vita del protagonista, quel postino che per van Gogh fu oggetto di quattro ritratti? Vita di Joseph Roulin è un racconto perfetto, tenuto stilisticamente in equilibrio nel sentimento iniziale, che appunto cresce dall’idea di minuscolo.
Procedendo nella lettura di Padroni e servitori si coglieva la sua successiva assunzione nel nuovo libro a formare una più o meno plausibile o ragionevole simmetria: la prima e la quarta storia dedicate ai «servitori», la seconda e la terza ai «padroni». In realtà, nel corso delle storie, queste distinzioni non sono per niente nette, gli uni non vivono senza gli altri, i padroni non sono propriamente padroni né servitori i servitori. Potrebbe van Gogh essere mai considerato un padrone? E in che senso o per quanto tempo fu prima servitore poi padrone il Goya del secondo racconto?
Personaggi o figure di riferimento sono sempre i pittori d’una volta: frontalmente o di scorcio fino a Les Onze del 2009, dedicato al quadro di François-Élie Corentin, che là sta appeso, quattro metri per tre, in una sala in fondo al Louvre, eterna memoria di Robespierre, di Saint-Just e degli altri, sia «che li si consideri Rappresentanti magnanimi o tigri alterate dal sangue». Ma anche quando gli «antichi maestri» appaiono come figure laterali, o meramente citati — Tiepolo, Greuze, Chardin, Cézanne — sempre in Michon essi sono esemplari. Al pari degli scrittori che di continuo egli evoca, da Faulkner (ne discende stilisticamente, attraverso Claude Simon), a Tournier, il cui nome non viene pronunciato. I contemporanei, per uno scrittore tardivo e che tanto soffrì per mettere a fuoco la sua vocazione (anche in ragione delle origini contadine, «minuscole») — i contemporanei vengono nominati solo se dapprima cupamente influenti, Sollers per tutti, e poi finalmente ripudiati: alle soglie della liberazione-maturazione.
Ma è qui, a questa altezza, quella di Vite minu- scole, che va posta la riflessione critica. Vita di Joseph Roulin resta il libro che era, il libro che a me sembra perfetto: in specie se lo si contestualizzi al decennio del debutto, alla sua aridità, al suo declino (rispetto al fulgore che lo aveva preceduto, dai Cinquanta alla morte di Sartre, di Barthes, di Foucault — o di Perec). Per il Michon di Vite minuscole si comincia con la sorpresa (in Italia tardiva rispetto alle traduzioni precedenti), con l’ammirazione, con uno stupore crescente. Ma per quanto in sé ammirevole si possa giudicare un racconto come quello dedicato al Père Foucault, o l’altro, dedicato alla sorellina morta, sarebbe difficile non essere colti da un sentimento di limite, ovvero di saturazione.
Di che cosa sto parlando, per la precisione? Di un elemento intellettuale, che da un certo punto diventa ideologico (a volte accolto, dai lettori, con una qualche felicità a buon mercato, felicità che diventa compiacenza); e di un elemento stilistico ampiamente diffuso nella seconda metà del Novecento — l’uno e l’altro indisgiungibili o indisgiungibili più del consueto: è proprio quello stile che tramuta in ideologico ciò che era intellettuale.
Proviamo a ragionare sull’aggettivo «minuscolo». Tali sono Julien Sorel, Eugène de Rastignac, Emma Bovary? In potenza sì, vite qualunque. Di fatto no, vite che in rapporto al loro mondo tentarono di diventare altro da ciò che erano e ottennero i risultati che ottennero. Oppure, pensiamo all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij: esso è meno che minuscolo, sta laggiù, oltre il fondo; o ai personaggi di Verga: sono proprio minuscoli o ciò che sappiamo, dei vinti, ossia non confinati nel ruolo assegnato dalla nascita? Lo si potrebbe pensare, che siano minuscoli, tutti gli altri, gli abitanti delle città, o delle campagne, di cui hanno scritto i romanzieri grandi e piccoli: ma non sono costoro, in prima istanza, semplicemente anonimi?
Minuscoli in diverso modo che in Michon potrebbero considerarsi, e sono, i personaggi di Cechov: è pensando a Cechov che si coglie la peculiarità dello scrittore francese. Nello scrittore russo, il minuscolo non ha bisogno di essere detto minuscolo. Tale diventa in Michon che — riflettendo su un’idea di Foucault, Foucault il filosofo, l’idea di dedicare un libro alle vite infami, nel senso di «prive di fama» — se ne assume il compito e scrive un libro in cui sono protagonisti i personaggi che conobbe dalla nascita (con un parente remoto ebbe un incontro, assai relativo, quando era sul punto di nascere o appena nato) alla prima giovinezza, quella dell’assedio dell’alcol e dell’impotenza ad assolvere il progetto: sì che Vite minuscole consiste nella raccolta di otto ritratti e in un tormentato romanzo di formazione, sebbene indiretto.
È qui, in questo peculiare incrocio tra la prima e la terza persona, l’eccellenza del libro; ma è an- che qui che si rivela la sua natura intima. Da una parte c’è, di fronte al dolore, «un tocco di sentimento» — come direbbe Marcel Mauss, descrivendo cerimonie di lutto dei primitivi; c’è l’idea (per me inaccettabile) della rivendicazione prima e del riscatto poi attraverso la scrittura — idea elevata al rango di potenza infine conseguita. Ma si può, mi dico, pensare a van Gogh di fronte al postino Roulin come padrone, o come mero padrone? Sempre ricordando Mauss, non è il suo gift (inglese), il quadro che donò a Roulin, anche l’altro Gift (tedesco), ossia un veleno? Non è proprio questo veleno la costellazione di ossimori, massimo quello giocato sulla vicinanza di assenza-presenza, di cui è piena la pagina di Michon in ogni suo libro? Non è veleno la quantità di aggettivi (preziosi) che accompagnano ogni suo sostantivo? O la «carne eucaristica», «i morti che non hanno più sete», «lo sguardo di cui una levriera gratifica il canattiere», quel grande bicchiere tenuto «con ferma delicatezza, come fosse d’oro», quel suo «scoprivo i libri, in cui ci si può nascondere così come fra le sottane trionfali del cielo», non sono segni, più che iperletterari, di cattiva letteratura o dell’idea di scrittore di cui tristemente Michon parla ne Les Onze?
Sarebbe costui «un forte condensato di sensibilità e di intelligenza da gettare nell’universale pasta umana per farla crescere, un moltiplicatore dell’umano, un potere d’accrescimento dell’uomo come le storte lo sono dell’oro e gli alambicchi del vino, una potente macchina per aumentare la felicità degli uomini». Era, questo di Corentin, un momento della Storia. Ma la storia dell’artista, della sua famiglia (così simile a quella di Michon, famiglia di tradimenti e fuga, famiglia senza padre), del suo quadro (mai dipinto poiché inesistente, come inesistente ne è l’autore) appare così veritiera da sottolineare il suo oggetto: il Comitato di salute pubblica.
Che cosa ci sta dicendo l’ormai anziano scrittore? Che se lo scrittore ha preso il posto di Dio nell’elargizione dell’universale, a contendergli il primato c’è da allora il politico — quasi che dietro il politico non ci sia ora, di nuovo invisibile, l’uomo della finanza. Ma questa scala non è quella da troppo tempo familiare di La vera vita di Sebastian Knight di Nabokov o del Jusep Torres Campalans di Max Aub? In Michon, essa viene portata all’estremo dell’assunzione e della delusione, o del rifiuto: il sì e il no insieme sono il suo campo semantico ed emotivo. Eppure, non più il nostro. Non proprio la labilità del confine tra menzogna e verità, ma il sovrapporsi di finzione e falsificazione sembra aver esaurito la sua strada.