Corriere della Sera - La Lettura
Tancredi, l’arte (come la vita) è tutta da scoprire
Novecento La Collezione Guggenheim rende omaggio al pittore morto suicida nel 1964, poco compreso, tardivamente invitato alla Biennale. Un’occasione per riconoscerne il talento
«La vita è ancora tutta da scoprire», scrive Tancredi Parmeggiani in uno dei suoi ultimi appunti. Parole colme di amore per la vita, tragicamente ingannevoli: solo poche settimane dopo averle scritte, infatti, il suo corpo viene recuperato nel Tevere. È il primo ottobre 1964.
Tancredi, così è conosciuto da tutti, con il solo nome di battesimo, a 37 anni, si è lasciato andare dal Ponte Sisto. È volato via, con la sua trasparente e inquieta bellezza, travolto dalla depressione, dal senso di fallimento, dalla convinzione di non essere stato davvero compreso per la sua arte. Forse consumato dal suo stesso genio. Tre anni dopo, Dino Buzzati scrive della mostra antologica («già circonfusa d’un patetico alone di mito») che ipocritamente Venezia gli dedica solo post mortem. E sottolinea con affetto: «La sua personalità consisteva in una specie di afflato, di grazia, di impeto lirico, di levità giovanile, di felicità espressiva per cui le esperienze e anche le invenzioni altrui venivano da lui assimilate, bruciate, fatte sue e restituite sulla tela con un accento spesso inconfondibile».
Ora Tancredi è tornato simbolicamente a casa. Nella sua Venezia, dove ha vissuto a lungo, dove si è formato, dove ha amato e dove ha soprattutto dipinto. Ma, metaforicamente, è tornato anche tra le braccia della «sua» Peggy Guggenheim, (unica a proteggerlo negli anni difficili del suo esordio veneziano) grazie alla sensibilità di Luca Massimo Barbero che ha costruito, negli spazi intimi della Collezione, una retrospettiva densa, potente e a tratti emozionante per il rigore della mostra e la qualità delle opere.
Non era facile dare vita a una retrospettiva che riuscisse a mettere ordine, e dunque fornire una nuova lettura critica alla complessità del lavoro di Tancredi, accusato in alcuni casi di aver attraversato stili diversi, attinto a insegnamenti eterogenei, macinato citazioni. In realtà, e questa mostra lo afferma chiaramente, ha elaborato s e mpre, co n una s e nt i - mentale coerenza, una sua autonoma e poetica visione del mondo.
Sono gli anni in cui in Italia (tra l’uscita dalle macerie della guerra e l’inizio del boom economico) si affermano l’Informale di Emilio Vedova e di Afro Basaldella ma anche lo spazialismo di Lucio Fontana (con i suoi tagli) o la rottura di Alberto Burri (con i suoi sacchi). Dagli Stati Uniti arrivano gli echi del dripping di Pollock, le potenti e spirituali opere di Rothko, e poi l’inizio della stagione Pop di Rauschenberg e di Warhol. Oltre alle sollecitazioni dalle opere delle avanguardie, è da sottolineare la relazione con Carlo e Renato Cardazzo, titolari di due storiche gallerie, a Venezia e Milano, punti di riferimento della ricerca artistica. Ma nonostante i vari manifesti sottoscritti ( Manifesto del movimento spaziale per la televisione) Tancredi resta un personaggio inclassificabile. Tuttavia, il tempo gli restituirà il ruolo di uno degli interpreti più originali della pittura della seconda metà del Novecento.
Tancredi nasce a Feltre (Belluno) il 25 settembre 1927 e dopo una serie di precoci perdite (il padre, l’assenza della madre) e continui spostamenti e rifiuti (scuole, collegi, clandestino in Francia) ottiene la sua prima personale a Venezia nel ’49 ma solo nel ’52 incontra Peggy Guggenheim, che gli mette a disposizione uno studio a Palazzo Venier dei Leoni.
Peggy Guggenheim resta incantata da quella personalità fragile, da quella bellezza ipnotica, avvolta da una perenne inquietudine e da una «sprovvedutezza infantile», come ricorda proprio Buzzati. E lei, tradendo se stessa dall’impegno di non prendere, dopo Pollock, altri artisti a contratto, decide di «proteggerlo». Con passione scrive: «Tancredi, con la sua pittura, crea una nuova filosofia poetica per coloro che non posseggono né telescopi né razzi: quanto fortunati noi che abbiamo tali cristallizzazioni da trasportarci sani e salvi, verso altri mondi».
Questa retrospettiva, dal titolo poetico e rivelatore ( La mia arma contro l’atomica è un filo d’erba) ci conduce nell’universo di Tancredi in cui, appunto, la Natura ha un ruolo centrale: pitture che evocano folate di vento, trasparenze, stratificazioni di colori come evocazioni di paesaggi veneziani o di visioni cosmiche, nel costante elogio della dimensione naturalistica, anche quella del Nord (dopo il suo matrimonio nel 1958 con la pittrice norvegese Tove Dietrichson, da cui ebbe due figli). E, infine, quello della memoria, attraverso gli ultimi dipinti che celebrano le origini attraverso un «diario paesano», che ricorda i racconti dell’infanzia, i fiori raccolti nei prati di Feltre, la mitologia di una vita vissuta come una meravigliosa promessa.
Luca Massimo Barbero ha costruito una mostra cronologica (dai primi disegni del 1949 sino agli ultimi dipinti del 1964) in cui le opere nelle piccole stanze della Collezione sono unite sempre da attente assonanze, richiami stilistici, tecniche pittoriche.
Dalle pareti, per il numero dei lavori esposti (oltre 90), le opere sembrano venirci incontro in un inaspettato effetto d’intimità. In alcuni casi Barbero ha volutamente scardinato la proporzione della visione, inserendo ad esempio Materia Luce (1959), un quadro alto quasi due metri, in una piccola nicchia. Si è invitati così ad «ascoltare» Tancredi, oltre che a vederlo. Il curatore inizia con una stanza in cui ci sono i primi disegni del ’49, realizzati a casa di un amico. Tancredi gli rubava i fogli, per fare un ritratto dietro l’altro. Eseguiti di getto, rivelano la sua straordinaria qualità di disegnatore (ricordano Modigliani, Picasso, Cocteau) ma al tempo stesso la sua capacità di oltrepassare i linguaggi. E proprio queste prime stanze mettono infatti in luce la scoperta di una sua visione pittorica legata all’astrazione.
Tancredi a Venezia, grazie a Peggy, vede per la prima volta Pollock e, in alcune opere rivelatrici del 1952, si coglie la sua capacità di recepire la lezione del dripping, e insieme di superarla, per un suo personale segno, che guarda costantemente e soprattutto alla Natura, allo spazio, alla trasparenza.
Un grande della fotografia come Nino Migliori ricorda a «la Lettura» il momento in cui Tancredi ed Emilio Vedova scoprono per la prima volta Pollock: «Nei miei giri veneziani — dice — dormivo in un divano a casa di Tancredi. Peggy invi- tò Vedova e Tancredi a festeggiare l’arrivo da New York del quadro di Pol l ock e i o, ovviamente, mi unii a loro. Fu sconvolgente vedere quel dipinto, eravamo tutti eccitati, con la sensazione di vivere un momento e cce zi o nal e . Discutemmo di arte e vita per tutta la notte e bevemmo tanto champagne da finire tutti ubriachi».
Una stagione straordinaria: è il momento per Tancredi di riflettere sul Neoplasticismo di Mondrian, sullo Spazialismo. Ed è qui che scopre l’elemento fondamentale della sua ricerca: il punto. Compone quadri che evocano galassie lontane, senza contorni definiti, con spazi incerti. E allora, quasi fosse un profetico scienziato della fisica quantistica, dichiara sicuro: «Lo spazio è curvo».
Nell’ultima sala emerge con maggior forza lo spaesamento di Tancredi. Abbandona la pittura astratta e qui emerge la contraddizione di opere solari, con fiori, collage e colori intensi (in cui ironizza sulle prime falsificazioni delle sue opere con Fiori dipinti da me e da altri al 101% (1962), messi in dialogo con la presenza di mostri che sembrano affiorare dalle pitture di Ensor: W la pittura astratta (1960) o il trittico Hiroshima 1-2-3 (1962) in cui figure di fantasmi incarnano l’orrore della guerra e le sue vittime innocenti.
Il 1964. Tancredi è in crisi. Viene internato nell’ospedale di San Servolo. Vi rimarrà sino a giugno. Paradossalmente proprio in quel periodo viene invitato alla Biennale, riconoscimento importante. Ma è troppo tardi. Luca Massimo Barbero, di fronte all’ultima, bellissima opera della mostra, ricorda le parole dello storico dell’arte Giuseppe Mazzariol, che evoca la figura di Tancredi: «È tardi ormai? È morto suicida, gettandosi nel Tevere, travolto dalla solitudine prima ancora che dall’acqua. Ma resta la sua pittura. Anzi comincia adesso, per chi volesse. Un quadro, dei colori, dei segni. O falsi o veri. In questi c’è solo verità. Verità vuol dire che c’è la vita, il mondo, l’oggi e la speranza del domani». Proprio come insegnava Tancredi nell’ultimo appunto: «La vita è ancora tutta da scoprire».
Percorso Si parte dai disegni del 1949. La sua sensibilità per la natura si alimentò anche grazie al legame con l’artista norvegese Tove Dietrichson