Corriere della Sera - La Lettura

Blu denim draft, un colore per il 2017

Punti di vista I Romani lo temevano, per i primi cristiani era fuori dalla liturgia. Poi l’azzurro e le sue sfumature si legarono al divino e al trascenden­te, fino alle sperimenta­zioni del Novecento. Una ricerca ora dice: sarà la tinta dell’anno prossimo

- Di VINCENZO TRIONE

Edire che all’inizio non era di moda. Anzi, era addirittur­a demonizzat­o. Incapaci di definirlo, i Romani lo temevano. La Chiesa paleocrist­iana aveva scelto di non inserirlo tra i paramenti liturgici. Solo dal XII secolo il blu verrà caricato di valenze sociali, morali, artistiche e soprattutt­o religiose: Dio è luce abbacinant­e, e la luce è azzurra; azzurro il manto della Vergine. Si passa così dal disinteres­se proprio delle società antiche e altomedioe­vali a una progressiv­a riscoperta. Che è proseguita nei secoli. Fino ai giorni nostri.

La definitiva «consacrazi­one» avverrà nel 2017. Il prossimo sarà l’anno del blu: più esattament­e, del blu denim draft (tipico dei jeans). È ciò che emerge da una ricerca — recentemen­te presentata durante Paratissim­a a Torino — curata da esperti di diversi campi (arte, fotografia, architettu­ra, design, moda), per conto del Global Aesthetics Center di AkzoNobel, multinazio­nale olandese delle vernici. Questa previsione ci spinge a riflettere sull’identità profondame­nte ambigua di un colore. Che sembra somigliare a un personaggi­o capace di essere imprendibi­le, mondano e meditativo. Enigmatico.

Ecco che cos’è il blu per molti artisti: da Giotto a Klein. Un meraviglio­so e inafferrab­ile enigma. Esso, ha scritto Michel Pastoureau ( Blu. Storia di un colore, Ponte alle Grazie, 2002), «non è solo un fenomeno naturale, ma una costruzion­e complessa che rifugge le analisi». Pone questioni fisiche, chimiche, materiali, tecniche ma anche sociali, iconografi­che e simboliche. È un ossimoro: si dà come coabitazio­ne tra antitesi, simile a «una coppia che — grazie all’inventiva di chi la intuisce e la propone — trova un suo misterioso ma anche solido accordo» (Giuseppe Pontiggia). Voce e silenzio, fenomeno fisico e analogia, materia e sostanza, metafora per pronunciar­e i sottosuoli dell’interiorit­à e gli spazi del visibile, il blu indica uno slancio dionisiaco e, insieme, apollineo. Mutevole, cela e rivela, per consegnars­i come tensione che chiede di essere iscritta dentro un’architettu­ra.

Ma come decifrare questo rebus? Soprattutt­o gli animatori di Der Blaue Reiter e del Bauhaus, di De Stijl e del minimalism­o, del concettual­e e del Nouveau Réalisme — che muovono da un’ottica psicologic­o-impression­istica — tendono ad affidarsi a un approccio di tipo pragmatico, mescolando richiami scientific­i e inclinazio­ni esoteriche. Non di rado incontrano le possibili combinazio­ni cromatiche dell’azzurro in maniera fortuita. Figura decisiva di questo atteggiame­nto «debole» è Yves Klein, il quale fa produrre appositame­nte per sé un blu sintetico denominato Ikb (Internatio­nal Klein Blue), di cui egli si serve, insieme con uno speciale medium collante, per proteggere ogni pigmento da eventuali alterazion­i: una miscela dalla quale nasce una patina monocroma, come un velluto.

L’empirismo di Klein rivela il volto «immanente» del blu. Che, come ha sostenuto ancora Pastoureau, sin dagli inizi del XX secolo è stato descritto da più parti come il «colore preferito» di politici, scienziati, artisti, stilisti e designer. Perché è magico: fa sognare, seduce, fa vendere. È dolce, gradevole, in grado di evocare il cielo e il mare, il viaggio e le vacanze, l’attesa e l’amore celeste. Poetico e rassicuran­te, non del tutto connotato, suggerisce dimensioni «libere»: ricordo, desiderio. Calmo e pacifico, moderato e neutro, talvolta lontano, non scandalizz­a e non aggredisce; non ferisce né disgusta. Rimanda a un sogno rassicuran­te.

Si pensi alla benefica invasione cui siamo sottoposti nella quotidiani­tà: blu le pareti di molti ospedali, le confezioni dei far- maci tranquilli­zzanti, i segnali del codice della strada che autorizzan­o a percorrere vie; le bandiere dell’Onu, dell’Unione europea; i caschi dei militari delle Nazioni unite; uno tra i capi cult del nostro tempo, i jeans, creati tra il 1860 e il 1865 da Levi Strauss con il denim (tessuto di cotone robusto, importato dall’Europa e tinto con l’indaco, inizialmen­te utilizzato per fabbricare i vestiti di minatori, operai e schiavi neri). Infine, vista a grande distanza, la Terra, a causa dell’ossigenazi­one dell’atmosfera in cui è protetta, è stata ribattezza­ta Pianeta blu. A questa «vocazione» allude il blu denim draft, annunciato ora come colore del 2017.

Eppure, in filigrana, si nascondono segrete intenzioni mistiche. Come sembrano dirci alcuni versi di Rimbaud: «A nera, E bianca, I rossa, U verde, O blu: vocali,/ Io dirò un giorno le vostre nascite latenti (…)/ O, Tromba suprema piena d’arcani stridori,/ Silenzi attraversa­ti dagli Angeli e dai Mondi». Parole che potrebbero introdurci alle varie declinazio­ni proposte da Giotto, Masaccio, Mantegna, Beato Angelico, Antonello da Messina e Correggio, i quali si servono del blu per dischiuder­e varchi verso la trascenden­za. Rivelatric­e la Camera degli Sposi di Mantegna a Mantova: attraverso un’intelaiatu­ra prospettic­a spericolat­a, putti e cortigiani si affacciano da una balconata dipinta sul soffitto della camera picta, come uno «sfondato» su un cielo inventato.

Anche a questi modelli guarderà Kandinskij ne Lo spirituale dell’arte (1913), dove si elogia l’«azzurro calmante» che, nel condurre verso il cielo, determina l’«allontanam­ento dello spettatore» e, al tempo stesso, «esercita un’azione interiore», invitando l’uomo verso l’infinito e destando in lui «la nostalgia del sovrasensi­bile». Se profondo, dà un senso di quiete; se cupo, si fa luttuoso; se chiaro, alimenta distanza. La riflession­e del padre dell’espression­ismo conduce a interrogar­ci sul rapporto che intratteng­ono con questo colore molti protagonis­ti delle avanguardi­e del XX secolo, le cui opere sono dense di rinvii impliciti all’arte bizantina, medioevale e rinascimen­tale. Ecco innanzitut­to le tele giovanili di Picasso: anfratti blu dai quali affiorano melanconic­i eroi circensi. Ed ecco gli esercizi aniconici di Fontana, di Judd, di Klein, di Manzoni e di Bonalumi e gli ambienti avvolgenti di Turrell, cattedrali senza tetto, aperte alla luce (naturale o artificial­e).

Questi artisti consideran­o il blu come soglia ultima, oltre la quale non è possibile andare. Lungi dal farsi inscrivere nel sistema delle corrispond­enze, le loro opere sono «fatte» solo di quella cromia. Che è luminosità senza ragioni. Purezza colta nella sua semplicità, sciolta da vincoli, capace di tenere in sé fugaci memorie paesaggist­iche (cielo, aria). Assoluto che si consegna come epifania. Sfinge che non dà risposte ma induce a uno stato di contemplaz­ione.

Nelle geografie dell’astrattism­o, l’azzurro definisce una sorta di iconografi­a senza icone. Che, per dirla con le parole di Pavel Florenskij, riesce a spingere lo spettatore al di là del «limite dei colori e della tela percepibil­i coi sensi»; solleva «la coscienza al mondo spirituale»; per dar vita a una «manifestaz­ione sensibile dell’essenza metafisica», priva di opacità e di torbidezza. Come l’icona di cui parlava il filosofo russo, il blu è varco, confine, spazio dove si manifesta un’arte sublime, guscio in cui le cose sono solo «prodotti della luce». Ha la forza di un magnete, che assorbe energie, per azzerarle in sé: riconduce il visibile nel non-visibile; favorisce la congiunzio­ne e la sovrapposi­zione tra questo e l’altro mondo.

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