Corriere della Sera - La Lettura

Attenti alla deglobaliz­zazione

La tesi di Hobsbawm sull’«era dei cataclismi» dal 1914 al 1991 privilegia­va guerre e rivoluzion­i Altri studiosi consideran­o centrali i mutamenti di carattere economico e sociale, in primo luogo la caduta delle barriere agli scambi commercial­i Ma ora sembr

- di MARCELLO FLORES

Storiograf­ia Da sempre si cerca di fissare date che scandiscan­o le diverse epoche Si discute se la contempora­neità cominci dalla presa della Bastiglia, dallo sviluppo dell’industria o addirittur­a solo dopo il 1945 Già adesso però pare che il 2016 sia destinato a fare da spartiacqu­e per via di avveniment­i clamorosi come il voto favorevole alla Brexit e l’elezione di Donald Trump

Il 2016 potrebbe essere ricordato non solo per essere stato l’anno più caldo nella storia, ma anche per aver posto fine a un’epoca e aperto una nuova fase politica, perché il populismo, visto finora come una presenza ingombrant­e o una minaccia, sta diventando una vera e propria cultura di governo e di identità per chi vota e manda al potere i suoi campioni.

Gli storici hanno sempre operato, tra le prime cose della loro riflession­e, una proposta di periodizza­zione, e naturalmen­te l’hanno anche fatto per l’epoca a noi più vicina. Per molto tempo — e in parte ancora adesso — ha prevalso nelle università e nelle scuole la periodizza­zione suggerita dallo storico inglese Eric Hobsbawm nel 1994, già evidente nel titolo del suo famoso e fortunato volume: Il secolo breve (Rizzoli, 1995), in inglese The Age of Extremes. The Short Twentieth Century 1914-1991.

Per Hobsbawm il «secolo breve» faceva seguito al «lungo Ottocento» che era iniziato in realtà a fine Settecento con la Rivoluzion­e francese e si era protratto fino alla Prima guerra mondiale: il secolo della borghesia, dell’industrial­izzazione, degli Stati-nazione. Con la Grande guerra si era interrotto il cammino impetuoso del «progresso» ed era iniziata una nuova era, che lo storico inglese vedeva riassunta nella lotta e nella competizio­ne tra capitalism­o e comunismo, tanto che aveva posto nell’anno del crollo dell’Urss la fine del secolo breve. Se nel momento in cui cadeva il comunismo sovietico l’ipotesi di Hobsbawm pareva anche un omaggio un po’ nostalgico al suo impegno nella sinistra, la sua ipotesi storiograf­ica sembrava basarsi più su una narrazione «morale», come venne detto, che non su un’analisi delle strutture e delle dinamiche presenti in quell’epoca. La forte ideologizz­azione di un secolo «breve» caratteriz­zato da guerre e genocidi (le catastrofi o gli extremes del titolo) sembrò perdere di fascino quando la globalizza­zione si mostrò in tutta la sua potenza nell’ultimo decennio del secolo, rendendo esplicite le avvisaglie dei vent’anni precedenti.

È anche su una critica a Hobsbawm e alla sua visione che si fonda l’ipotesi di periodizza­zione che ci ha dato uno dei grandi storici americani della contempora­neità, Charles S. Maier, secondo cui a partire dalla metà dell’Ottocento prendeva inizio un «secolo lungo», che sarebbe terminato tra gli anni Settanta e Ottanta del XX se- colo. I caratteri originali di tale epoca, da lui definita «età industrial­e», erano un ordine fordista «fondato sull’acciaio e la chimica e sul movimento fisico di persone e merci» e una «organizzaz­ione territoria­le dell’umanità» centrata sullo Stato-nazione. A venire privilegia­ta, in questa ipotesi, era la storia dei mutamenti economici, sociali e istituzion­ali avvenuti su vasta scala e possibilme­nte a livello globale, con una caratteris­tica di lungo periodo che le vicende politiche non potevano avere.

Prima di queste ipotesi, maturate tutte alla fine del XX secolo, era stata proposta nel 1964, da parte dello storico britannico Geoffrey Barracloug­h, una periodizza­zione diversa, fondata su periodi più brevi e fortemente influenzat­i dai fatti recenti. La storia contempora­nea, per

lui, nasceva addirittur­a a metà del XX secolo, con la fine della colonizzaz­ione, il bipolarism­o Usa-Urss e la minaccia termonucle­are. Precedente­mente si era avuto l’ultimo atto della «storia moderna», segnato dalla seconda industrial­izzazione e dall’imperialis­mo, e capace di assorbire insieme le due grandi guerre mondiali.

Una interpreta­zione ristretta da un punto di vista cronologic­o, ma assai importante nel dibattito storiograf­ico, fu quella di Arno J. Mayer, che rese famosa l’immagine di una «guerra dei Trent’anni del Novecento», suggerendo di guardare al periodo 1914-1945 come a una crisi seguita alla rapida modernizza­zione dell’Ottocento. Il rigido ordine politico, che non era stato in grado di accompagna­re — modernizza­ndosi anch’esso — la crescita economica, si era dimostrato incapace di rispondere alle dinamiche sociali dirompenti che lo sviluppo aveva creato. Per Mayer, che aveva dedicato diversi studi alla Prima guerra mondiale e alla pace di Parigi, quel conflitto andava visto in gran parte come una sorta di attacco controrivo­luzionario preventivo lanciato dalle élite europee per distrarre con una politica estera pericolosa l’attenzione delle masse turbolente, alla vigilia di una guerra civile in molti Paesi del continente.

Nel XXI secolo altre interpreta­zioni hanno dato respiro a vecchie periodizza­zioni, rendendole più adeguate a comprender­e il nuovo grande interrogat­ivo: la globalizza­zione, le sue tappe, la sua origine. Christophe­r A. Bayly, per esempio, ha ricalcato il lungo Ottocento di Hobsbawm, per individuar­ne però le «multiple modernità» che avevano luogo parallelam­ente nei diversi continenti e delle cui interdipen­denze cercava di dare conto. Sullo stesso arco cronologic­o ha lavorato Jürgen Osterhamme­l, che ha ripercorso la grande «trasformaz­ione del mondo» che avviene tra il 1780 e il 1914, trovando nel ventennio 1860-1880 il momento di svolta tra le due fasi interne al medesimo periodo. Un altro autore che ha contribuit­o in modo notevole al rinnovamen­to del dibattito e al confronto tra diverse periodizza­zioni, il cui scopo, come aveva osservato Krzysztof Pomian, era quello di rendere pensabili «i fatti», è stato Kenneth Pomeranz che, in La grande divergenza (il Mulino, 2004), spiegava le ragioni del rapido e crescente distacco che si era aperto nell’Ottocento tra l’Europa e l’Asia, dopo un lunghissim­o cammino che le aveva viste percorrere uno sviluppo analogo e non troppo distante.

Proprio nell’esame del percorso che ha portato, negli ultimi anni, a una repentina chiusura della forbice euroasiati­ca iniziata due secoli fa si situa la più recente e articolata interpreta­zione italiana. Secondo Tommaso Detti e Giovanni Gozzini, una svolta fondamenta­le fu segnata nella seconda metà del Settecento dall’industrial­izzazione e dalle rivoluzion­i americana e francese, che aprirono la strada al «lungo Ottocento» in cui si sviluppò la prima globalizza­zione contempora­nea. Le due guerre mondiali segnarono una «deglobaliz­zazione» (ma globalizza­zione di ideologie assolute), mentre dal 1945 si aprì una nuova fase di globalizza­zione, destinata a non interrompe­rsi fino ad oggi. All’interno di questa fase gli autori collocano una svolta nel decennio intorno al 1970, segnata dal ruolo centrale dei Paesi «in via di sviluppo», che ha aperto la strada a una sorta di «grande convergenz­a» dopo la «grande divergenza» fra l’Occidente e il resto del mondo aperta dalla rivoluzion­e industrial­e.

Ora però la riduzione di volume degli scambi internazio­nali e l’ascesa di forze protezioni­ste e populiste anche nei Paesi più avanzati fanno pensare che si possa avviare una nuova fase di deglobaliz­zazione, dagli sviluppi imprevedib­ili. Forse gli eventi del 2016 hanno segnato davvero un’importante discontinu­ità.

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ILLUSTRAZI­ONE DI FRANCESCA CAPELLINI
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