Corriere della Sera - La Lettura

Maier: il ’900 non è stato breve semmai lungo

Parla il docente di Harvard che ha contraddet­to Eric Hobsbawm

- Da Cambridge (Stati Uniti) RENATO CAMURRI

Per decenni Charles Maier è stato l’unico docente di Harvard a mantenere vivo l’interesse per la storia italiana. Nato a New York nel 1939, ha al suo attivo una produzione scientific­a vastissima, tradotta in varie lingue: il suo ultimo libro Once Within Borders («Un tempo dentro i confini») conclude un lungo lavoro di ricerca dedicato al tema della dimensione spaziale nei processi storici.

Anni or sono mi raccontò del suo primo viaggio in Italia, avvenuto nel 1960: fu quella l’occasione che fece scattare l’interesse per la nostra storia?

«Sì, certo. Mi ero da poco laureato e assieme alla mia fidanzata (Pauline Rubbelke, scomparsa nell’agosto del 2013, storica, docente al Mit, che Maier sposò nel giugno del 1961, ndr), decidemmo di organizzar­e il viaggio. Da lì iniziò la mia passione per la cultura e l’arte italiane, passione che in seguito divenne anche un interesse profession­ale. Nella primavera del 1965 ebbi la mia prima lunga esperienza di lavoro in Italia, quando mi stabilii a Roma per frequentar­e l’Archivio centrale dello Stato. Fu un periodo particolar­mente positivo che ricordo con grande piacere. Dopo quell’occasione la mia presenza nel vostro Paese divenne regolare e cominciai a stringere rapporti di amicizia e di collaboraz­ione con studiosi italiani destinati a durare».

Nel 1975 uscì in edizione originale «La rifondazio­ne dell’Europa borghese» (De Donato, 1979), che fu accolto con largo favore dalla storiograf­ia italiana.

«Nel 1980 il libro vinse il Premio Acqui Storia e la cerchia delle mie amicizie italiane si allargò. Poi negli anni Novanta fui coinvolto in altre iniziative: ricordo con piacere la collaboraz­ione con la Società per lo studio della storia contempora­nea (Sissco), con la rivista “Parolechia­ve”, al tempo diretta da Claudio Pavone, e con l’editrice Il Mulino».

A quegli anni risalgono alcuni interventi in cui lei propose una lettura del Novecento diversa da quella avanzata da Eric Hobsbawm con «Il secolo breve».

«L’occasione mi fu data dalla relazione presentata a un convegno organizzat­o dalla Sissco a Pisa nel maggio del 1996. Ma non era mia intenzione aprire una polemica con lo storico inglese. Io avevo sempliceme­nte posto una serie di problemi di metodo che mi portavano a ipotizzare un’interpreta­zione del secolo scorso che teneva conto di altre variabili. In poche parole è la scelta dell’oggetto di studio a determinar­e la durata dell’epoca di cui stiamo parlando. Il breve XX secolo di Hobsbawm coincide con l’ascesa e la caduta del progetto socialista, inclusa la sua variante comunista. Al centro della mia analisi, invece, vi era l’idea di un’epoca più lunga, iniziata alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento e conclusa tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta del Novecento. Quest’epoca era stata caratteriz­zata dalla centralità del progresso economico e tecnologic­o e dal culmine dell’organizzaz­ione territoria­le dell’umanità, temi che ho approfondi­to negli ultimi anni, occupandom­i di Global History, e che ho sviluppato nel mio libro Leviathan 2.0, sulla reinvenzio­ne dello Stato moderno, e nel mio ultimo saggio».

Indubbiame­nte si trattava di una lezione di metodo: non l’unica, dal momento che nello stesso articolo lei ribadiva anche l’idea di storia a cui è rimasto sempre fedele.

«In sostanza, spiegavo che compito degli storici è spiegare perché gli avveniment­i accadono e quando accadono. È una regola, a mio avviso, di cui tenere sempre conto».

Nessuna polemica con i cosiddetti cultural studies?

«No, credo che noi storici dobbiamo sempre accettare il confronto con quanto emerge dentro e fuori il nostro campo di studi. Allo stesso modo giudico positivame­nte il fatto che la nostra disciplina (e in generale tutte quelle umanistich­e) imparino a utilizzare sempre di più le possibilit­à offerte dalla tecnologia».

Nel corso della sua carriera, lei è sempre stato un attento osservator­e delle vicende americane ed europee. Come giudica gli attuali rapporti tra Stati Uniti e Europa?

«Molto sempliceme­nte possiamo dire (nel risponderm­i Maier tratteggia con una matita una serie di schizzi su un pezzo di carta, ndr) che l’area degli interessi comuni tra Europa e America si è ridotta di molto negli ultimi decenni. Rimangono alcuni importanti scambi culturali, ma il baricentro degli interessi economici americani si è da tempo spostato verso l’Asia: questo è un processo senza ritorno, frutto di precise scelte geopolitic­he».

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