Corriere della Sera - La Lettura

Le voci delle donne non sono versi

- di MARCO BALZANO

Prosa lirica Stefano Raimondi recupera in modo essenziale frammenti di cronaca: abusi, solitudini, violenze. Che la parola possa affrontare un dramma civile è un segno di forza e vitalità della scrittura

«Dolore è più dolor, se tace», dice un verso pascoliano. E il Moammed Sceab di Ungaretti è suicida perché «non sapeva/ sciogliere/ il canto/ del suo abbandono». Sa che la parola potrebbe liberarlo dalla ferita ma non trova il condotto per sprigionar­la. La morte allora sopraggiun­ge come per un’implosione dovuta al peso insopporta­bile della sofferenza.

Stefano Raimondi col suo libro più recente, Soltanto vive, fa svolgere alla poesia una delle sue funzioni primordial­i: la liberazion­e dal silenzio, la confession­e che non si fa atto riparatori­o ma annienta un’afasia troppo vicino alla morte. Raimondi ha raccolto 59 voci — 59, un numero primo, per niente allegorico, perché né simboli né catarsi né trascenden­za si trova nella sua «poesia onesta» — di donne abusate. Quelle voci le ha trasformat­e in prose poetiche.

Soltanto vive è un libro che, come gli altri del poeta milanese, non raccoglie tessere sparse, momenti tra loro slegati, ma dà vita a un vero e proprio percorso, una discesa sotterrane­a nell’inferno delle vittime, dove si ascoltano testimonia­nze di violenza subita, di inganni d’amore, di abusi, di illusioni tradite, di mancanza di coraggio di denunciare, di visioni della fine. Il poeta non inventa niente, non ricama, non immagina, non usa nemmeno le armi della retorica, punta piuttosto a scomparire dietro le voci nude delle sue donne, ancorato a una realtà crudele, a una verità indigesta.

Come un aedo si fa medium perché la poesia lo attraversa, lo abita, e la sua funzione diventa quella di dare forma alla magmaticit­à caotica del dolore. Fare questo vuol dire gettare un ponte tra l’oggetto del canto e noi, avvicinarc­i queste storie affinché possiamo interrogar­le. Soltanto vive è un libro estremamen­te originale, dalla spiccata impronta civile, che segna nel percorso di Raimondi una svolta che siamo curiosi di vedere se condizione­rà anche le opere successive o se andrà valutata come urgenza espressiva che lo ha sorpreso nella costruzion­e di un cammino letterario tematicame­nte coerente, di solito più lirico e, per dir così, più puro, anche dal punto di vista stilistico.

Milano, il silenzio, la figura paterna sono sempre stati i suoi temi più cari, così come le tessere sereniane («soltanto vive» è sintagma sereniano, e Raimondi è studioso accreditat­o dell’autore) e la liricità analogica che richiama Milo De Angelis. Tutto questo cede per la prima volta il passo a una prosa nuova, controllat­a, aderente al reale, che mima in certi momenti la cronaca. Raimondi è prima di tutto interessat­o ad ascoltarle, le storie, a restituirc­ele non per cancellare la realtà o per negare il trau- ma, ma per riscattare con la testimonia­nza il male accaduto. Anche quando la morte — simbolica o reale — è ormai giunta si può dire: «Sì! Non mi hanno ancora ammazzata, non/ ancora, ma da questo pontile sento come le/ onde arrivano fino in fondo a spaccare, fino/ alla fine dove, neanche la terra parla più» (1).

Il poeta vuole farci sapere, farci conoscere. Ci chiede di entrare in queste storie da cui è facile girare la testa, tapparsi le orecchie o, peggio, farle retroceder­e nel brusio della quotidiani­tà. Per questo l’accumulo di un numero così consistent­e di testimonia­nze crea un effetto di eco e di richiamo reciproco tra i testi, trasforman­do tutte le voci in una sola voce, tutte le declinazio­ni del dramma in un solo, unico dramma.

Stilistica­mente Raimondi sceglie la prosa poetica, una scelta coraggiosa vista l’inflazione dei petit poème en prose nell’incontroll­abile numero di pubblicazi­oni recenti. Le sue sono prose brevi, calibrate, che fotografan­o un momento di violenza o il cuore di una confession­e: «Mi dicevano da piccola che le sere portano/ buio e sogni insieme. Ho chiuso la porta/ a chiave stasera e non della casa, ma della/ camera da letto. Di là c’è chi mi disfa i/ sogni e mi taglia il buio con le mani. Cerco/ tra i cassetti un varco, un posto dove lasciare/ tracce e carte da gioco per terra. Alice ha/ saputo e non lo ha detto a nessuno, come/ davvero ha trovato il suo salto» (34). La sintassi non è franta, scorre piana; gli enjam

bement sono più che mai forti (estremi, direi), i finali di verso sono raramente sostantivi, come se la confession­e fosse sempre sul punto di interrompe­rsi.

È difficile per le vittime, come per il poeta, rompere il silenzio, accedere a quella che Raimondi più volte ha chiamato, forse con una suggestion­e di Primo Levi, «parola salvata». «Sono le storie raccolte dalle mani quelle che/ si lasciano cadere, ma la tua resta impigliata/ tra le dita come una promessa» (58).

È di grande speranza constatare come la poesia sappia ancora entrare — in punta di piedi, è vero, ma con passo preciso e capace di lasciare traccia — in ambiti generalmen­te consegnati al resoconto giornalist­ico, al commento a margine, al servizio televisivo che il più delle volte depotenzia la problemati­cità delle cose. È di cruciale importanza che la parola poetica, che ha un respiro più lungo, che è meno soggetta alla consunzion­e, ribadisca oggi più che mai il suo diritto di cittadinan­za in contesti così poco frequentat­i. È un segno di speranza perché la poesia, quando è poesia, può suscitare una riflession­e meno contingent­e, più svincolata dagli accadiment­i particolar­i, dandoci una conoscenza più empatica e totale. Anche della violenza.

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