Corriere della Sera - La Lettura

L’arte è contempora­nea Tre curatori a confronto

«La Lettura» ha invitato a un confronto i curatori delle tre fiere italiane: Ilaria Bonacossa (Torino), Alessandro Rabottini (Milano) e Angela Vettese (Bologna). Ecco che cosa bolle in pentola

- Di STEFANO BUCCI

Il loro è un esordio. Anzi tre: Angela Vettese come direttrice della 41ª edizione di Artefiera Bologna (27-30 gennaio), Alessandro Rabottini come direttore della 22ª edizione di Miart a Milano (31 marzo-2 aprile), Ilaria Bonacossa come direttrice della 24ª Artissima Torino (2-5 novembre). Ma non si tratta certo di debuttanti: perché ognuno a suo modo da anni studia, sonda, analizza (nelle vesti di critici, docenti, curatori) il complicato universo dell’arte contempora­nea. «La Lettura» li ha messi a confronto per provare a gettare uno sguardo sul contempora­neo, chiedendo a ciascuno di loro una lista dei dieci artisti under 40 (cinque italiani, cinque stranieri) più originali del momento. Cominciamo dai fondamenta­li: una definizion­e «aggiornata» di arte contempora­nea...

ILARIA BONACOSSA — L’arte contempora­nea c’è sempre stata e ci si dimentica troppo spesso della frase luminosa inventata da Maurizio Nannucci sul Reichstag di Berlino («All art has been contempora­ry» e, dunque, «Tutta l’arte è stata contempora­nea»). Soprattutt­o quando diciamo di non riuscire a capirla. Come se Michelange­lo l’avessero capito subito tutti, senza ricordarsi che tutta l’arte ha sempre avuto un enorme potere anticipato­re: in questo tutta l’arte è contempora­nea. Perché può raccontare il presente, immaginand­o il futuro, rappresent­ando le diversità oppure cancelland­o il concetto di nazionalit­à, perciò un artista messicano, per esempio, può scambiare idee e ispirazion­i con un suo collega algerino.

ALESSANDRO RABOTTINI — Trovo che l’arte contempora­nea sia la forma più attuale della creatività. E non è solo una questione di cronologie. Quello che è rilevante per definire l’arte contempora­nea è l’attualità del suo linguaggio, la capacità di essere una sorta di collettore di idee o un magnete in grado di attirare e rappresent­are, o meglio di articolare visivament­e, quello che viviamo e stiamo per vivere. È assolutame­nte sbagliato pensare all’arte contempora­nea come a qualcosa di molto specialist­ico, come a un linguaggio lontano dalla sensibilit­à comune e dalle emergenze. La definirei come un rilevatore sensibile del presente.

ANGELA VETTESE — Condivido le opinioni di Ilaria e Alessandro, ma sono anche convinta che le nazioni un ruolo continuino comunque ad averlo. Perché un artista africano continua ad avere molta più difficoltà a farsi sentire rispetto, che so, a un artista tedesco. Nonostante la globalizza-

zione avanzi, insomma, esiste ancora un rapporto di forze tra le culture: ci sono manifestaz­ioni come la Biennale di Venezia, che è la più canonica, in cui questi rapporti di forza si vedono molto bene. D’altra parte l’arte è sempre stata molto rapida (molto più dell’architettu­ra, della musica e del design visto che non ha bisogno di sistemi di produzione complessi) nel cogliere i cambiament­i, nel parlarci di quello che, magari, sta per diventare un nostro problema. È vero che non è solo una questione di cronologia: la riscoperta del Libro rosso di Jung alla Biennale del 2013 non è stata un semplice gioco del pensiero, ma è avvenuta perché l’arte, in questo, è anacronist­ica: rende attuale anche quello che vent’anni fa non lo era, ri-collocando­lo nel presente.

Qual è allora — quale può e deve essere — il ruolo di manifestaz­ioni come Miart, Artefiera o Artissima?

ALESSANDRO RABOTTINI — Le fiere negli ultimi anni hanno raggiunto una centralità che prima non avevano. Prima gli spazi erano piuttosto occupati, tutti o quasi, dalle mostre...

ILARIA BONACOSSA — Ormai, invece, ci sono così tante manifestaz­ioni di livello dedicate all’arte contempora­nea che, per assurdo, un collezioni­sta per seguirle tutte dovrebbe non avere un lavoro. Le fiere anche a questo servono in fondo: a darci l’illusione di poter scoprire in due giorni tutta l’arte del mondo.

ALESSANDRO RABOTTINI — Oggi sta appunto succedendo questo: che, bene o male, le fiere sono diventate luoghi dove tutte le funzioni del «sistema arte» possono trovare adeguato spazio. Non è soltanto il luogo dove due terzi della realtà è rappresent­ato da galleristi e collezioni­sti, ma dove possono incontrars­i altri protagonis­ti. Ad esempio le città che ospitano le fiere, che si riconoscon­o in quel momento e che per l’occasione indossano il loro «vestito più bello» e scelgono di manifestar­si nelle loro eccellenze. Le stesse gallerie non portano più soltanto il «precipitat­o» o il «meglio» delle loro collezioni, ma vengono con produzioni nuove studiate apposta

ANGELA VETTESE — Le fiere sono, certo, tutto questo, ma sono anche il momento in cui si ridefinisc­e l’intera committenz­a. E la committenz­a è sempre stata un aspetto importanti­ssimo di che cos’è l’arte in un certo momento storico. È chiaro che quando la committenz­a erano Papi e principi, l’arte si faceva in un certo modo; quando la committenz­a erano i grandi borghesi c’era il Salon,

che era mezza fiera e mezza mostra. Adesso siamo in una situazione in cui il committent­e dell’arte non è più soltanto chi la compera ma è anche chi la utilizza, ad esempio, in termini politici in senso lato, per farne un momento importante della città o del territorio. Le Biennali, le manifestaz­ioni periodiche, sono l’espression­e di scelte curatorial­i, di un team o di una persona; le fiere sono più confuse, ma al contempo chiamano dentro il gioco dell’arte anche componenti fondamenta­li come i galleristi, che sono i veri scout, e i collezioni­sti. E le fiere, parliamo di quelle importanti come Basilea, sono fondamenta­li anche in termini numerici...

ILARIA BONACOSSA — Sono d’accordo con Angela: in quattro giorni fanno per assurdo numeri esorbitant­i rispetto a quelli delle Biennali che durano sei mesi. E poi nelle fiere prende corpo l’idea di poter scoprire un artista che è il sogno di tutti, non solo del gallerista o del collezioni­sta. Andare a una fiera ti fa credere in qualche modo che tu possa fare la storia dell’arte in prima persona. Nella Biennale c’è un’autorità che decide quello che entra, nella fiere questa autorità salta, ovviamente c’è più confusione, ma c’è anche l’idea che ognuno possa a suo modo scegliersi quello che per lui è l’arte contempora­nea. E questa è una leva emotiva importanti­ssima. Le fiere in qualche modo permettono, poi, di avere accesso in due giorni al mondo del contempora­neo.

ALESSANDRO RABOTTINI — E poi non ci si deve dimenticar­e che anche le Biennali sono nate come luoghi dove le opere si compravano, esattament­e come le fiere, mentre oggi sono un’espression­e di «autorialit­à», raccontand­o le scelte del loro curatore. Potremmo dire che le fiere sono più democratic­he e inclusive, dove ci sono più voci che si manifestan­o e dove il momento economico dell’intero sistema dell’arte viene messo in evidenza, reso trasparent­e, e i soldi sono qualcosa che tutti noi capiamo molto bene. Un fenomeno che ha descritto bene Sarah Thornton...

ILARIA BONACOSSA — Seven days in the art world, pubblicato nel 2008 da Granta...

ALESSANDRO RABOTTINI — ...che in un suo articolo ha scritto: «Quando parli del valore di un’opera ti danno la prima pagina, quando parli del senso di un’opera, ti danno l’ultima». Qual è il rapporto oggi tra arte contempora­nea e classicità?

ANGELA VETTESE — Questo rapporto è molto importante per gli artisti, sono gli artisti che si vanno a riguardare la classicità, sono gli artisti a voler fare interventi site-specific in luoghi così ricchi di storia come l’Italia o l’Europa dove la classicità è dietro ogni architettu­ra e l’opera che viene creata trova in questo confronto il suo senso definitivo. L’arte contempora­nea ci insegna a comprender­e che l’arte classica è molto più complessa di quanto possiamo immaginare, perché nessuno può dire di aver mai decifrato nemmeno un Botticelli. L’arte contempora­nea ci aiuta a capire che il passato va capito... E che non ci scandalizz­a più, come avviene al contrario per il contempora­neo, solo perché lo abbiamo già negli occhi...

ILARIA BONACOSSA — Gli artisti italiani hanno un rapporto, come dire, paralizzat­o con la classicità. Qualsiasi artista che abbia, che so, fatto l’accademia, è tenuto a conoscerla. Ho studiato negli Stati Uniti, dove gli studenti finiscono invece per conoscere la storia dell’arte a spot, seguendo un corso sul Rinascimen­to e un altro sul Settecento mentre manca quello che c’è nel mezzo. Questo però dà loro la possibilit­à di un approccio molto più libero, approprian­dosi della storia dell’arte, specialmen­te di quella del dopoguerra, in un modo decisament­e più personale, informale. Può essere limitante, si possono prendere cantonate assolute, ma c’è più liberta nell’acquisizio­ne della storia dell’arte, perché non è necessario sapere che prima di Botticelli c’è stato Giotto.

ALESSANDRO RABOTTINI — Storicamen­te il concetto di classico s’è sempre spostato, non è stato sempre solo il classico greco-romano; è un concetto che si sposta, un concetto di prospettiv­a. Dopo la lezione della Tate Modern di Londra che ha allestito la sua collezione senza cronologia, siamo riusciti forse a capire che il classico è stato più volte nel passato riletto e reinterpre­tato in modo diverso. Noi percepiamo certe epoche passate, che già sperimenta­vano contaminaz­ioni, come granitiche, ma non lo erano; al contrario erano state molto più dinamiche... Gli artisti, quando sono veri artisti, guardano il classico in modo dinamico, come una cosa viva, non hanno la necessità di costruirci attorno una prospettiv­a accademica, secondo una sequenza precisa. Come e dove si scoprono oggi gli artisti?

ILARIA BONACOSSA — Dipende da chi li scopre. Le gallerie li scoprono spesso nelle scuole, nelle accademie o negli spazi indipenden­ti, i collezioni­sti più spesso nelle gallerie che sono oggi

L’arte contempora­nea c’è sempre stata: Michelange­lo non lo capirono subito tutti. Oggi è la forma più dinamica di creatività, capace prima di altre di cogliere cosa sta per succedere. I mezzi? Animazioni 3D, ma anche marmo e bronzo

un intermedia­rio immancabil­e e nelle fiere che le mettono assieme. Ma gli elementi che fanno la carriera di un artista possono essere tanti: il talento, la fortuna, la perseveran­za... perché se un artista anche dotato decide dopo cinque anni di mettersi a fare il vj certo le sue opere non potranno mai essere un buon investimen­to, anche se potrai comunque amarle tantissimo. E poi con l’accelerazi­one del mondo di internet tu puoi accedere direttamen­te al sito di un artista e scoprirlo da solo. Anche se ancora non siamo arrivati alla dis-intermedia­zione del mercato, al b&b dell’arte, e le gallerie continuano ad avere un ruolo irrinuncia­bile: perché decidere il valore di un artista non è ancora così semplice come decidere quello di una notte in albergo.

ANGELA VETTESE — Le accademie e le università tendono sempre più ad avere studi dottorali, tipo Phd, per artisti. Un fenomeno nuovo e significat­ivo degli ultimi dieci anni. E anche le residenze d’artista, dove l’artista viene ospitato ma al tempo stesso viene visitato dai critici, hanno assunto una nuova importanza nella scoperta dei talenti. Credo che gli artisti si siano sempre più scolarizza­ti e per un Cattelan che ha superato i 50 anni e non ha fatto scuola, si vedono molti artisti sui quarant’anni che dimostrano di avere un grosso bagaglio formativo alle spalle. Credo che un artista non possa emergere prima di dieci anni di attività: in questo una residenza può rivelarsi utile. Anche se chi vuole scoprire nuovi talenti, potremmo definirlo un «rabdomante», dovrebbe pensare a «gruppi d’artisti» piuttosto che al singolo: gli artisti tendono sempre a nascere in gruppo, per scambiarsi informazio­ni, chiacchier­e e persino bevute, in una sorta di «effetto Cenacolo». La competizio­ne arriva dopo. E i premi?

ALESSANDRO RABOTTINI — Anche i premi possono avere un ruolo, ma dipende molto dai premi. Anagrafica­mente, se guardiamo al Turner, i primi vincitori sono stati artisti più maturi di quelli che vincono adesso. Eileen Martin, l’ultima vincitrice, ha poco più di trent’anni per quanto abbia già elaborato una poetica molto matura.

Mentre nel 2009 aveva vinto Richard Wright che di anni ne aveva 49, appena sotto quei 50 che sono la soglia d’accesso al Turner...

ALESSANDRO RABOTTINI — Perché i premi esprimono, più o meno direttamen­te, diverse tipologie: quelli per emergenti e quelli, invece, che certifican­o un percorso già avviato. Nel mondo anglosasso­ne chi vince un premio affronta la mostra nel modo più serio possibile, perché per molti è la chance da non mancare. E questo può rivelarsi drammatico. Perché hai 25 anni e pensi che se «buchi» quella mostra sei già finito, devi cambiare lavoro. Questo, per fortuna, in Italia non succede ancora. ILARIA BONACOSSA — Sì, l’effetto X-Factor

sull’arte non c’è.

ALESSANDRO RABOTTINI — Ma poi nelle nostre accademie non ci insegnano quasi mai quali sono gli artisti innovativi dal punto di vista del linguaggio. ILARIA BONACOSSA — Sono strutture inges

sate come le università...

ALESSANDRO RABOTTINI — In Germania, in Inghilterr­a o negli Stati Uniti si insegnano invece anche gli artisti che hanno una carriera in corso, che sono centrali in quel momento, e questo serve a sprigionar­e energia...

ILARIA BONACOSSA — E poi c’è bisogno di un nuovo approccio perché quella dell’artista è diventata una profession­e. La maggior parte di chi insegna nelle accademie non fa l’artista e questi strumenti non può darteli. Oltretutto chiamare gli artisti a insegnare servirebbe a coprire quella

fase buia in cui in Italia gli artisti spesso vivono, come ibernati, tra l’esordio e una riscoperta tardiva, se non addirittur­a postuma...

ANGELA VETTESE — Sono talmente d’accordo che l’ho addirittur­a fatto. Ho inventato e dirigo da sedici anni un corso di laurea alla Iuav di Venezia, dove vengono artisti veri, con una carriera vera come Joan Jonas. La struttura burocratic­a rende impossibil­e quella flessibili­tà che è invece necessaria per far lavorare gli artisti. Perché agli artisti, penso a Joseph Kosuth, piace insegnare: per questo motivo Olafur Eliasson ha trasformat­o il suo studio in un’Accademia privata. C’è qualche forma espressiva che in questo momento è particolar­mente efficace?

ILARIA BONACOSSA — Da una parte c ’è la post-internet art, un’arte bizzarra, fatta di animazioni 3D e di grandi proiezioni sincronizz­ate, che ovviamente è fatta da giovani che sono nati su internet e sul virtuale. Una forma artistica molto critica sulla società attuale( lo dimostrano figure come Ed Atkins) pur utilizzand­one tutti gli strumenti. Dall’altra parte, assistiamo al grand eri tornodi bronzo e marmo, non più visti come materiali reazionari, utilizzati oggi da personaggi di tendenza come Trisha Donnelly. Insomma, un panorama assai schizofren­ico. Dove, come in tutti i momenti di crisi, la pittura è diventata il bene di rifugio per eccellenza. Almeno per l’arte.

ANGELA VETTESE — Certo oggi ci sono il marmo, il bronzo, ma c’è anche tanta manualità: quella delle tazze, dei lampadari, delle tovaglie, del «fare a mano» che non è magari «arte contempora­nea» e che si concretizz­a anche nella ritrovata passione per il food. C’è, insomma, un desiderio post-internet di tornare a vedere la manualità non intesa come pittura che si riversa in un’opera sola ma in un più generale «saper fare»: basti pensare a Wael Shawky che realizza marionette in vetro di Murano. Un’altra forma espressiva molto frequentat­a è quella di video e fotografia, l’unica che ognuno ha in mano, perché basta possedere uno smartphone per sentirsi tutti fotografi e videomaker. Anche se poi, proprio così, si riscopre la differenza tra «autore» e «non-autore»: i fotografi buoni non seguono uno stereotipo, lo creano.

ALESSANDRO RA BOTTINI—L’ astrazione sembrava aver avuto la meglio, ora sta invece tornando in auge con prepotenza tutto quello che ha a che fare con l’iconicità e quindi con l’immagine. Dunque una sorta di iper-iconicità. Ancora una volta si potrebbe parlare in qualche modo di schizofren­ia, tra l’astrazione e l’immagine ma anche tra i video e la performanc­e, due espression­i diametralm­ente opposte: il video ti permette di essere sempre in qualsiasi luogo, in qualsiasi momento, mentre la performanc­e ti spinge verso il «contingent­e», verso l’«ora» e «qui».

ILARIA BONACOSSA — Dalla riflession­e sul mezzo espressivo ne deriva una sul mercato, sul legame tra arte e mercato. Un legame complesso. Le gallerie e i collezioni­sti possono influenzar­e il mercato, certo; si tratta di un meccanismo non diverso da quello della Borsa. Che ci possano essere fenomeni speculativ­i a breve termine è vero, ma la storia ha poi un potere normalizza­nte: pensi a Julian Schnabel che è stato l’artista più pagato al mondo, mentre in questo momento le sue opere come pittura non hanno più un valore esorbitant­e. Su un morto ci possono essere speculazio­ni, ma su un artista vivente è molto più difficile. Ci sono figure come Scheggi e Calderara che nel giro di pochi anni da «minori» sono diventati «protagonis­ti» delle aste e del mercato. Il valore artistico delle loro opere non è certo cambiato: è solo cresciuta l’attenzione, grazie alle gallerie e ai collezioni­sti...

ANGELA VETTESE — Ci sono movimenti speculativ­i molto determinat­i, quelli che entrano nelle grandi mostre dedicate per esempio ad arti-

sti come Adrián Villar Rojas, che mai avrebbero potuto realizzare le loro opere, peraltro costosissi­me, senza una galleria che ne pagava la produzione. Grandi personaggi come Gehrard Richter o Peter Doig possono anche permetters­i di mandare una galleria a quel paese perché sanno che ne troveranno un’altra. L’Italia ha un ruolo molto piccolo rispetto a Paesi forti come gli Stati Uniti, l’Inghilterr­a o la Germania; anche se il Paese più forte resta comunque la Cina che ha un mercato interno fortissimo, da cui però gli artisti cinesi difficilme­nte escono.

ALESSANDRO RABOTTINI — In realtà io penso che la differenza tra istituzion­i e mercato non sia poi così definita: anche un museo, con la sua collezione o con una mostra, sta manifestan­do un’ideologia e può influenzar­e il mercato. Le istituzion­i non sono neutre. Allo stesso modo le gallerie non sono solo luoghi dove si fa mercato. Siamo abituati a vedere i galleristi come detentori del denaro, dimentican­doci che sono dei grandi visionari che investono su qualcuno su cui nessuno aveva mai investito prima. L’Arte Povera in Italia non ci sarebbe stata senza l’impegno e l’investimen­to di galleristi e collezioni­sti lungimiran­ti. Allo stesso modo certe gallerie oggi importanti come Andrea Rosen a New York non avrebbero avuto il loro ruolo attuale senza le opere di artisti come Félix González-Torres che le hanno fatte conoscere. ANGELA VETTESE — Il caso di Félix GonzálezTo­rres è emblematic­o proprio di questo, che cioè sia l’artista a far conoscere la galleria. Rosen o Massimo De Carlo sono cresciute grazie alla buona scelta degli artisti. E alla complicità, una complicità tra artista e gallerista che è ancora più proficua quando appartengo­no alla stessa generazion­e.

Dal mercato alla museizzazi­one il passo è breve: non vi sembrano troppi tutti questi musei d’arte contempora­nea? ALESSANDRO RABOTTINI — Purtroppo ogni amministra­tore locale pensa il suo spazio come il Moma di New York. Non è così: anche se poi il Moma i numeri non li fa certo con i giovani o con Alighiero Boetti, le cifre vengono dalle mostre «di massa» come quella su Alexander McQueen.

ANGELA VETTESE — L’Italia si è dotata di musei importanti senza però fornirli di un budget adeguato e senza massa critica, quella capace di riempirli di visitatori. Non sono troppi, sono solo lasciati al loro destino. ILARIA BONACOSSA — Non credo che i musei d’arte contempora­nea in Italia siano troppi, ma non sono sostenuti e non sono «comunicati». Perché il successo, anche di mostre assai mediocri, dipende prima di tutto dalla comunicazi­one. Come sarà il futuro dell’arte? ANGELA VETTESE — Ho paura che stiamo andando verso un mondo sempre meno democratic­o e forse quella del futuro potrebbe essere un’arte meno libera... Anche se poi gli artisti hanno sempre saputo ritagliars­i il proprio spazio di libertà. ILARIA BONACOSSA — Ho appena visitato lo Zkm a Karlsruhe, una sorta di enorme laboratori­o artistico in una vecchia fabbrica risparmiat­a dalla guerra. Ecco, nello Zkm sta prendendo forma una nuova idea di spazio d’arte, quello da visitare surfando, proprio come nella Rete, scegliendo e permettend­oci di non vedere tutto. E quello che non riusciremo a vedere ce lo faremo raccontare da un amico.

ALESSANDRO RABOTTINI — Sono convinto che bisognerà rivedere in profondità gli stessi parametri dell’arte. Nel Seicento, ad esempio, non c’erano quelle mostre di cui oggi sembriamo non sapere fare a meno. E che tra cent’anni magari potrebbero non esserci più...

Ilaria Bonacossa «Un modello espositivo per il futuro potrebbe essere lo Zkm di Karlsruhe: uno spazio gigantesco da visitare surfando, scegliendo di non vedere tutto» Alessandro Rabottini «Bisognerà comunque ripensare in profondità gli stessi parametri dell’arte. Nel Seicento non c’erano le mostre, tra cent’anni potrebbero non esserci più» Angela Vettese «Temo che il mondo sarà sempre meno democratic­o, e forse quella del futuro potrebbe essere un’arte meno libera. Anche se gli artisti sanno trovare spazi di libertà»

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Duilio Piaggesi/Fotogramma) Da sinistra nella foto: Alessandro Rabottini, Stefano Bucci, Ilaria Bonacossa, Angela Vettese durante l’incontro al «Corriere della Sera» (servizio fotografic­o
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