Corriere della Sera - La Lettura
Biologia e mitologia: la scoperta delle chimere
Bizzarri pesci dagli occhi enormi si aggirano in profondità Un cranio vecchio 280 milioni di anni ne illumina l’origine
Per quanto bizzarre siano le loro fattezze, quasi tutte le creature mitologiche sono rielaborazioni delle forme reali di qualche essere vivente. Si tratta spesso di produzioni ibride, come nel caso delle sirene che nella tradizione omerica sono metà donne e metà uccelli, mentre per una diversa e più diffusa tradizione sono metà donne e metà pesci. Ibrido è il centauro, metà uomo e metà cavallo; ibrida è l’arpia, uccello rapace con volto di donna. Ibrida è anche la chimera, figlia e sorella di altri mostri, che in sé assomma ben tre diverse nature, diventando così il prototipo dei mostri impossibili che sembrano essere stati generati dal sonno della ragione.
Non c’è spazio, per questi mostri, nella storia naturale. Se sei a Firenze, la chimera non la cerchi alla Specola, nelle collezioni zoologiche, ma nelle sale del Museo archeologico nazionale. Qui è ospitata la splendida chimera bronzea rinvenuta nel 1553 alla periferia di Arezzo. Corpo di leone, il suo, ma sulla schiena spunta fuori una testa di capra, mentre un mezzo serpente, con tanto di testa, prende il posto della coda. La chimera ha dunque due teste alle due opposte estremità del corpo, come le aveva l’anfisbena, uno dei velenosissimi serpenti che Lucano, nel poema Pharsalia, citava duemila anni fa tra gli abitanti del deserto libico. Mostro doppio o ambiguo è dunque la chimera, come se a rendere la sua esistenza del tutto improbabile non bastasse l’ignorato dramma del rigetto al quale dovrebbero andare incontro le parti eterologhe impiantate sul corpo leonino.
Insomma, a parte l’eventuale emissione di fuoco dalle fauci, la chimera del mito non è affatto più plausibile di quanto non sia il drago. Eppure, sia il drago che la chimera, assieme ad altre creature mitologiche, sopravvivono in qualche modo nella storia naturale. O, meglio, ne sopravvivono i nomi, passati a indicare animali reali, ma dalle forme inconsuete. Oggi per lo zoologo Draco (drago) è una piccola lucertola capace di eseguire un volo planato; Siren (sirena) è una sorta di salamandra dalle zampe rudimentali; Hydra (idra, come il mostro ucciso da Ercole) è un piccolo polipo d’acqua dolce; Sphinx (sfinge) è una farfalla notturna. Chimaera (chimera), infine, è un pesce dallo scheletro cartilagineo, come quello degli squali e delle razze.
Di chimere, a dire il vero, ne esistono almeno una cinquantina di specie, ma si tratta, nell’insieme, di animali poco conosciuti, di acque marine profonde: è difficile che si avventurino a meno di 200 metri dalla superficie, ed è questa la ragione principale per cui oltre un terzo delle specie oggi note è stato descritto solo negli ultimi vent’anni. Una sola specie di chimera, dal significativo nome scientifico di Chimaera monstrosa, è presente anche nelle nostre acque. La testa di questa chimera non è certo leonina: la bocca, ventrale come quella degli squali, non è armata di denti appuntiti o taglienti, ma di piastre trituratrici. Un po’ inquietanti, piuttosto, sono gli occhi, assai grandi, come hanno spesso i pesci che vivono in profondità, e la bizzarra appendice a forma di clava coperta di spine che spunta sulla testa dei maschi. Più attenzione sarà meglio riservare alla prima pinna dorsale, che è alta e sporgente, ma non somiglia a una testa di capra: è sostenuta da un raggio scheletrico molto robusto e si accompagna a una ghiandola velenifera. La somiglianza con la chimera del mito aumenta nella coda, che si prolunga in una lunga appendice, sottile e cilindrica, di aspetto serpentino. Le chimere hanno sessi separati e praticano la fecondazione interna. Le femmine, che possono raggiungere il metro di lunghezza, producono uova molto grandi, protette da un guscio corneo lungo una quindicina di centimetri.
Quella delle chimere (i pesci, s’intende) è una stirpe antica. La loro linea evolutiva si è staccata da quella degli squali e delle razze intorno ai 380 milioni di anni fa. Su quelle antiche vicende getta nuova luce un articolo pubblicato in questi giorni dalla prestigiosa rivista inglese «Nature», scritto da Michael I. Coates dell’Università di Chicago e da altri quattro paleontologi. Questi ricercatori hanno ripreso in mano un fossile descritto trent’anni fa, conservato nelle collezioni del South African Museum a Cape Town. L’aspetto complessivo di questo reperto è quello di un sasso globoso, che è stato diviso in due parti con una spaccatura irregolare. In gergo tecnico, è un nodulo, all’interno del quale si trova il fossile vero e proprio, rappresentato dalla scatola cranica di un pesce cartilagineo vissuto circa 280 milioni di anni fa.
Non si tratta esattamente di una chimera, ma di un rappresentante di un ramo collaterale estinto, quello dei simmoriidi; all’epoca in cui visse questo pesce, battezzato nel 1986 con lo scomodo nome di Dwykaselachus oosthuizeni, le vere chimere esistevano già. Tuttavia, c’era un’ottima ragione per riprendere in mano il fossile: il suo eccezionale stato di conservazione, tanto più insolito in quanto il cranio di questo pesce, così come quello delle chimere, degli squali e delle razze, non era costituito da osso, solido e mineralizzato, bensì da fragile cartilagine. Ma per questa stessa ragione si tratta di un fossile assai difficile da studiare con le tecniche tradizionali di cui poteva disporre Burger Oelofsen quando lo descrisse.
Oggi, però, il paleontologo può ricorrere a nuove tecniche, che permettono di ricostruire le strutture di un fossile fin nel più minuto dettaglio concesso dalle sue condizioni di conservazione. Di particolare importanza è la tecnica della tomografia computerizzata ad alta risoluzione, che è stata utilizzata da Coates e collaboratori per ricostruire l’interno della scatola cranica dell’unico esemplare conosciuto di Dwykaselachus, oltre a quello di un altro paio di specie, per le opportune comparazioni. La tecnica utilizzata non è dissimile da quella che viene applicata negli ospedali per ottenere una Tac, ma i risultati qui sono più impressionanti, in quanto l’impiego di potenti strumenti informatici li traduce in una ricostruzione tridimensionale: l’immagine che risulta dall’integrazione delle 3.360 sezioni ottiche realizzate è comodamente osservabile da ogni lato, grazie alle rotazioni di questa ricostruzione in tre dimensioni riprese in un video che accompagna l’articolo. Secondo Coates e colleghi, già nei primi rappresentanti della linea evolutiva alla quale appartengono i simmoriidi e le chimere gli occhi erano eccezionalmente grandi, indizio di una precoce colonizzazione dell’ambiente marino profondo da parte di questi pesci. Una vita oscura, la loro, quasi da creature mitologiche, dalla quale la tecnologia moderna comincia a riportarli in luce.