Corriere della Sera - La Lettura

L’autocensur­a di Tito Livio tra le grinfie di Augusto

Duemila anni fa moriva l’autore padovano che ricostruì per intero la storia di Roma partendo dall’approdo di Enea nel Lazio. Forse credette davvero che Ottaviano avesse restaurato la Repubblica, di certo si piegò al suo volere. E per scrivere su fatti rec

- Di LUCIANO CANFORA

La valutazion­e dell’opera di Augusto, come di altri facitori di storia, dividerà sempre gli storici. «Il devoto rispetto di Augusto per la libera costituzio­ne, che aveva egli stesso distrutto, non si può spiegare che con un attento esame dell’opera di questo sagace tiranno» scrisse di lui Edward Gibbon. Il primo a conoscere la difficoltà di tramandare una accettabil­e immagine di sé fu Augusto stesso, proprio perciò attento controllor­e degli intellettu­ali e in particolar­e degli storici del suo tempo. Tito Livio, morto duemila anni fa, per sua ventura, fu uno di essi: anzi il più noto e forse il più importante.

Non è la condizione più favorevole, sul piano dell’imparziali­tà, quella di uno storico che deve narrare il passato più recente, e ancora bruciante, sotto il governo di colui che è risultato vincitore nella lotta appena conclusa. Si potrebbe dire che il «problema» Livio (59 a.C.-17 d.C.) è tutto lì. Un «provincial­e» — un romano «recente» visto che la guerra dei socii contro Roma era finita meno di trent’anni prima della sua nascita —, nato a Padova, il municipium che nel 43 a.C. s’era schierato col Senato contro Antonio, approda a Roma, centro del potere, quando ormai Augusto è rimasto unico vincitore dell’interminab­ile ciclo delle guerre civili, e si avvicina alla corte fino a integrarsi in essa, divenendo per un bel po’ di tempo lo storico «ufficiale» del nuovo ordine.

Una bella contraddiz­ione. Il punto di partenza sono i sentimenti «repubblica­ni», peraltro caratteris­tici dei municipia e in particolar­e di Padova. L’equivoco della «restaurazi­one repubblica­na» di Augusto può aver contribui- to. Asinio Pollione, ex cesariano, ex antoniano, freddo con Augusto e cocciutame­nte intento a scrivere una storia delle guerre civili (un proposito che Orazio definì «un vero azzardo») definiva Livio — che non aveva in grande simpatia — «affetto da patavinità». Si può spiegare questa definizion­e in modo piuttosto semplice: Livio era uno di quelli che avranno creduto che la restaurazi­one repubblica­na ostentata da Augusto ci fosse davvero stata. Asinio Pollione no.

Sta di fatto che Asinio si mise a scrivere — prima di Azio (31 a.C.) o non molto dopo — la storia recente sulla quale poi Augusto (nel 25 a.C.) fece calare la sua verità con i 13 libri di autobiogra­fia ( Commentari­i de vita sua), mentre Livio decise di cominciare da Romolo, anzi dall’arrivo di Enea nel Lazio. Materia tranquilla? Fino a un certo punto: basti pensare all’insopporta­bile finale del VI libro dell’Eneide. Comunque materia più tranquilla che raccontare il colpo di Stato di Ottaviano (poi Augusto) del 19 agosto 43 a.C. o la mattanza delle proscrizio­ni triumviral­i da lui avallate, con brutale voltafacci­a verso il Senato, nel dicembre dello stesso annus terribilis.

Nella prima deca, nei libri sulla storia antichissi­ma, Livio «abbandona la leggenda solo per immergersi nel romanzo», ha scritto Ronald Syme in uno dei suoi saggi più riusciti ( Livy and Augustus, «Harvard Studies in Classical Philology», 1959). Si era giustifica­to di questa scelta, Livio, nella tutt’altro che serena praefatio (scritta ovviamente ben dopo il libro I), dicendo che aveva preferito indugiare a lungo nel racconto dell’antica virtù ritardando il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto raccontare il tempo presente: tempo nel quale «non riusciamo a sopportare i nostri vizi e nemmeno i necessari rimedi». Ma anche la storia antichissi­ma poteva rientrare nell’interesse politico-culturale del princeps, come ben sapeva Virgilio. Forse Livio non s’aspettava che Augusto intervenis­se addirittur­a nella scrittura stessa dell’opera dando consigli che in fondo erano ordini. Di questo «interventi­smo» culturale del princeps sappiamo da Livio stesso in un passo del IV libro, che viene spesso ricordato. Vale la pena rievocare di che si tratta.

Livio aveva scritto, seguendo una tradizione consolidat­a, che oltre quattro secoli prima Cornelio Cosso, tribuno militare ( tribunus militum) avendo ucciso di suo pugno il re di Veio aveva dedicato le «spoglie opime» del vinto nel tempio di Giove Feretrio (437 a.C.). Nel 29 a.C. Marco Licinio Crasso (nipote del triumviro morto a Carre), avendo, quando era proconsole in Macedonia, trucidato con le sue mani il condottier­o dei Bastarni, Deldone, voleva poter ri-

La giustifica­zione Disse che aveva preferito indugiare a lungo nel racconto dell’antica virtù ritardando il più possibile il momento in cui avrebbe dovuto narrare lo spiacevole tempo presente

petere l’antico gesto. Augusto, pessimo generale, non sopportava la gloria militare di altri che magari potevano «montarsi la testa». Che cosa fece? Con procedimen­to tipico della sua ipocrisia, che strapperà parole di fuoco ad Edward Gibbon, segnalò a Livio che aveva sbagliato: c’era un’epigrafe (da lui Augusto personalme­nte ritrovata quando aveva fatto ricostruir­e il tempio di Giove Feretrio! Si vantò di averne fatti restaurare 82) attestante che Cornelio Cosso non era, quando sconfisse il re di Veio, tribunus mi

litum, ma console. Il messaggio era che quell’onore che il giovane Crasso pretendeva spettava solo a consoli in carica, non a un proconsole. Livio si affrettò a registrare la rettifica, che infatti è incorporat­a in una sconcertan­te digression­e del libro IV, e soggiunge che sarebbe stato «quasi un sacrilegio» non tener conto del documento evocato, sulla fiducia, da Augusto. Che però può essere stato un falso. Syme nota infatti che in pieno V secolo a.C. «il detentore del sommo comando militare (imperium) sarebbe stato sicurament­e definito praetor, non consul ».

Ben altro successe più tardi. Procedendo nell’immane lavoro, Livio giunse a raccontare le vicende dell’anno 43 a.C., e quindi le proscrizio­ni (e quindi anche la morte violenta inflitta a Cicerone: la pagina sull’omicidio ci è stata salvata da Seneca padre in una Suasoria). Non era facile cavarsela; non tutti avevano la faziosità nutrita di servilismo di un Velleio Patercolo, storico cortigiano che aveva debuttato sotto Augusto e fatto carriera sotto Tiberio; Velleio giunse a scrivere che «Ottaviano si era invano, contro Antonio e Lepido, opposto alle proscrizio­ni». Al contrario, Seneca figlio (il filosofo) leggeva nell’opera storica rimasta inedita di suo padre che Ottaviano aveva scritto l’editto delle proscrizio­ni «a cena, sotto dettatura di Antonio». Livio non era Velleio. Nel libro CXX, che non è conservato (purtroppo si è persa tutta la parte recente dell’opera liviana) parlava unicamente di quella terrifican­te decimazion­e della classe dirigente «repubblica­na». Ma il modo in cui ne parlò non piacque — a quanto pare — ad Augusto. Una notizia antica, tramandata con il riassunto del libro CXXI, dice laconicame­nte: «Questo libro (il CXXI) fu pubblicato dopo la morte di Augusto». La notizia illumina l’accaduto: evidenteme­nte Livio decise di tacere dopo l’imbarazzan­te insuccesso del libro CXX. Riprese a pubblicare, o forse addirittur­a a scrivere, solo quando Augusto finalmente morì: nell’agosto del 14 d.C., nello stesso giorno in cui, 57 anni prima, «all’età di 19 anni», come si vanta, aveva attuato il colpo di Stato che lo aveva reso console e padrone della Repubblica che, pure, si era impegnato a servire.

Anche questo spiega perché Livio sia diventato un «classico» già per la generazion­e successiva. Quando nel 25 d.C., cioè appena otto anni dopo la morte di Livio, Cremuzio Cordo, senatore e storico repubblica­neggiante, venne deferito davanti al Senato (siamo sotto Tiberio e spadronegg­ia Seiano) per aver pubblicato libri elogiativi di Bruto e di Cassio («ultimo Romano», lo chiamava, cioè ultimo degno di essere definito tale), si difese invocando il precedente di Livio. «Tito Livio — disse Cremuzio davanti a un Senato di servi atterriti — che primeggiò per eloquenza e affidabili­tà, a tal punto, nella sua opera, aveva esaltato Gneo Pompeo che Augusto lo chiamava pompeiano». È Tacito che trascrive, o meglio rielabora, il discorso di Cremuzio. Ma possiamo credergli. Intorno a Cremuzio si era creato un vero e proprio «culto» repubblica­no. In questo milieu la storia delle guerre civili era stata e continuava ad essere il grande tema incandesce­nte. Quando Seneca si decise a pubblicare l’opera storica di suo padre, vi premise una introduzio­ne nella quale diceva icasticame­nte — forse riprendend­o una formula paterna — che «a partire dalle guerre» civili la veridicità degli storici aveva «incomincia­to a fare passi indietro». Tacito in apertura degli Annali dirà che il servilismo in campo storiograf­ico aveva cominciato a diffonders­i soprattutt­o con Tiberio, mentre «al racconto dei tempi di Augusto» non erano mancati «ingegni convenient­i», che comunque non è un grande compliment­o. Non fa nomi ma sta di sicuro riferendos­i (soprattutt­o) a Livio. Nel proemio delle Historiae invece era stato più severo: aveva scritto che, «già dopo Azio, quei grandi ingegni si erano fermati»; il che può anche significar­e che «avevano mostrato segni di cedimento». È evidente che un giudizio del genere investiva in pieno l’attività storiograf­ica di Livio, appena ventottenn­e quando si combatté ad Azio.

In realtà l’adulatio era incomincia­ta già sotto Augusto, e Tacito ben lo sapeva. Come sapeva che Augusto aveva esercitato la censura sulla storiograf­ia in modi anche pesanti. Caso estremo quello di Labieno, che si era lasciato morire per protesta contro il rogo della sua opera ordinato da Augusto. Per non parlare della emarginazi­one di un cesariano della prima ora come Asinio Pollione o della cacciata del greco Timagene dalla casa del princeps: tutti episodi che ci sono noti da Seneca, che dal proprio padre aveva appreso molte verità scomode. Del resto non ci spiegherem­mo il carattere catoniano-repubblica­no del poema storiograf­ico di Anneo Lucano sulla guerra civile ( Pharsalia) se non tenessimo conto della sua stretta parentela con il ceppo familiare repubblica­no degli Annei, originari di Cordova e travolti nella repression­e della congiura contro Nerone.

Livio aveva «navigato» in questo pelago. Molta parte della sua opera (gli ultimi dieci libri da CXXXIII a CXLII) riguardava il governo di Augusto ormai solo al potere, dopo Azio. Ma probabilme­nte quando mise in circolazio­ne quei libri ormai Augusto era morto. Come mai, nei libri pubblicati vivente ancora il princeps, Livio era stato così freddo con Cesare e deferente verso Pompeo ai limiti della esaltazion­e? Su Cesare aveva espresso un giudizio raggelante: lo aveva paragonato al vento, del quale — precisava — è difficile dire se sia meglio che nasca o che non nasca. Per Pompeo invece i toni erano stati talmente diversi da meritargli (evidenteme­nte nel corso di pubbliche letture a corte) l’epiteto di «pompeiano» da parte di Augusto, dietro la cui sorridente ironia bisognava spesso temere un’insidia. Ma era veramente una critica quella che Augusto così esprimeva? Detto da Ottaviano «capoparte» (per usare il titolo di un giustament­e celebre libro di Mario Attilio Levi) quell’epiteto sarebbe suonato come una critica aspra: nello scontro delle fazioni o si sta da una parte o dall’altra. Ma detto da Augusto ormai princeps (capace persino di recuperare Cicerone e farne il proprio profeta e annunciato­re) quel giudizio aveva un altro senso. Ormai il «padre» suo adottivo — cui doveva tutto, secondo una celebre battuta di Antonio — recedeva sempre più nello sfondo: Cesare, l’eversore, si era mosso contro la Repubblica, contro il clan politico-familiare dei Marcelli, con cui Augusto si era imparentat­o, addirittur­a puntando su di un erede (il Marcel

lus su cui si chiude, nell’Ade, il VI dell’Eneide). Preferiva ormai apparire, piuttosto, come colui che aveva realizzato finalmente il disegno, abortito, di Pompeo: princeps in re

publica, come Cicerone, ormai convinto della inevitabil­ità di un potere personale, lo aveva immaginato. E dunque un Livio «pompeiano» non era affatto sgradito. Forse Cremuzio Cordo non se ne era reso conto.

L’appellativ­o Quando definì Livio «pompeiano» l’imperatore non voleva attestarne l’indipenden­za intellettu­ale: in fondo preferiva essere considerat­o erede più di Pompeo che di Cesare

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