Corriere della Sera - La Lettura
L’Africa al buio
Seicento milioni di abitanti senza elettricità, la ricchezza prodotta inferiore al Pil del Brasile, il rinascimento bloccato, il futuro già finito. E i leader che eleggeranno tra pochi giorni il nuovo presidente dell’Unione divisi e litigiosi. Da una part
Julie Mehretu è un grande nome dell’arte contemporanea. Per l’Africa Art Market Report, è la più «quotata» artista africana. Nata in Etiopia nel 1970, a 7 anni è fuggita in America con la sua famiglia e là è rimasta. Nel 2015 Christie’s ha battuto uno dei suoi quadri astratti per 3,5 milioni di dollari, una vendita record secondo la rivista «Jeune Afrique». Quella radiosa, caotica geografia di colori s’intitola Looking Back to a Bright New Future, « Guardando indietro verso un luminoso futuro». Parole che giocano con il nastro trasportatore del tempo, con la porta girevole passato-avvenire. Un titolo che è il ritratto perfetto dell’Africa che nei prossimi giorni si ritrova proprio in Etiopia, nell’Etiopia «orfana» di Julie Mehretu e di tante altre voci della diaspora, per tracciare una mappa e trovare nuovo slancio verso un futuro che sembra scivolare alle spalle.
La stagione della nuova incertezza africana non traspare nei discorsi ufficiali, compresi quelli dei 50 e più leader che si ritroveranno a fine mese ad Addis Abeba, nella sede dell’Unione Africana (UA) che è un’imponente costruzione da 200 milioni di dollari inaugurata nel 2012 e pagata interamente dalla munifica Cina. L’appuntamento più importante, tra il 30 e il 31 gennaio, sarà l’elezione del nuovo presidente della Commissione: un ruolo di segretario generale, un volto che dovrà sostituire quello della presidente uscente, la sudafricana Nkosazana Dlamini-Zuma, e rappresentare l’Africa nei prossimi e cruciali quattro anni. Gran parte dei capi di Stato e di governo che scenderanno dalle limousine nel cuore di Addis sono gli stessi del 2012, gli stessi di sempre. Eppure, rispetto a quattro anni fa, l’orizzonte intorno alla torre dell’Unione è molto cambiato.
Nel mondo non si parla più di «Africa Rising». Il decennio del rinascimento si è bloccato, l’afro-pessimismo ha riguadagnato terreno, come la pressione migratoria verso l’Europa. L’economia ristagna, come la guerra in Sud Sudan, crescono le carestie dovute alla siccità, l’industria non decolla (la ricchezza prodotta in tutto il continente è inferiore al Pil del Brasile, il reddito medio in molti Paesi è inferiore ai tremila dollari l’anno: a fronte del 70% delle ricchezze minerarie mondiali, l’Africa conta per l’1% della produzione manifatturiera). E salvo eccezioni il percorso del ricambio politico ai vertici dello Stato è una via a ritroso. Nei 54 Paesi del puzzle Africa i golpe cruenti non si usano più. Ma è diventata una moda contagiosa, per i presidenti in carica anche nelle capitali più apprezzate dall’Occidente (vedi Kigali in Ruanda), cambiare i paletti della costituzione per restare in sella allo scadere del mandato. Trionfano regimi autoritari più o meno soft. Il mantenimento dello status quo (così come il suo ribaltamento) non è sinonimo di stabilità o di progresso. E i sempre più marcati squilibri tra città e campagne, tra giovani e non (l’età media degli africani è 19 anni ma l’età dei potenti va dai 60 in su) complicano prospettive di crescita che non appaiono luminose, come testimoniano i 621 milioni di africani che ancora non hanno accesso all’elettricità. E nei prossimi 15 anni, complice l’aumento della popolazione, altri 45 milioni di persone andranno ad accrescere il «popolo del buio». E pensare che Thomas Edison, 150 anni fa, aveva preconizzato: renderemo la luce elettrica così economica che soltanto i ricchi potranno permettersi di bruciare ancora candele!
Altro che digital economy. Anche chi ha la luce, non è detto che sia connesso: nella classifica mondiale dei Paesi dove internet è più costoso, 7 dei primi dieci sono africani (compreso il Ruanda; il Ciad è il più caro, con 500 dollari al mese). In base agli ultimi dati dell’International Telecommunication Union, tre quarti degli africani (che sono 1,2 miliardi) non usano la Rete (in Europa i non connessi sono il 21%). È vero che dieci anni fa c’erano appena 129 milioni di contratti per telefoni cellulari in tutta l’Africa. E che oggi sono quasi un miliardo. Ma il rapporto non è una persona, un apparecchio: molti usano schede diverse per risparmiare a seconda della chia- mata. Risultato (secondo uno studio dell’«Economist»): solo metà degli africani usa il telefonino. E anche nel Ruanda considerato faro di sviluppo, l’82% degli abitanti non ha internet. E sul fronte degli scambi, l’89% del commercio africano avviene con i Paesi d’oltremare, non coi Paesi «vicini».
La gente comune di questo continente sconnesso, vitale e disunito (il 40% della popolazione sotto il Sahara ce la fa con meno di 1,9 euro al giorno) non presterà grande attenzione ai giochi di potere dietro le quinte del ventottesimo summit della UA. Anche se il tema centrale
— sulla carta — è costituito «dagli investimenti sui giovani», il menù del vertice avrà due piatti forti (legati tra loro). L’elezione di Mr (o Mrs) Africa e il possibile ritorno del Marocco nell’Unione.
Non ingannino i nomi dei cinque contendenti, ignoti oltre i confini dei rispettivi Paesi d’origine (tre ministri degli Esteri incarica ). Pelo nomi Ven son-Mo itoi (Botswana), Moussa Faki Mahamat (Ciad), Agapito Mba Mokuy (Guinea Equatoriale), Amina C. Mohamed (Kenya), Abdoulaye Bathily (Senegal) sono stati protagonisti, a dicembre, del primo dibattito continentale andato in onda su tv e social network (53 milioni di commenti via Twitter). Un tentativo di «democratizzare» un’istituzione percepita come un club di leader e portaborse. Amina Mohamed, la signora diplomazia di Nairobi, secondo alcuni osservatori potrebbe avere qualche chance più degli altri, avendo ottenuto il sostegno pesante (anche se non ufficiale) dell’Algeria che, insieme con il Sudafrica, costituisce lo storico asse ideologico della UA, coagulando l’una i Paesi francofoni del Sahel, l’altro gli anglofoni dal Sudan in giù. Un rapporto privilegiato da un capo all’altro del continente: non a caso la prima visita all’estero di Nelson Mandela, dopo la liberazione nel 1990, fu proprio ad Algeri, punto di riferimento di diversi movimenti di liberazione dal giogo coloniale.
In questa partita, che è andata avanti per mesi (nel luglio scorso il vertice di Kigali si concluse con una fumata nera e il rinvio dell’elezione all’incontro di Addis Abeba), il presidente algerino Bouteflika ha giocato anche la carta del ciadiano Mahamat, volendo così stoppare sul quadrante occidentale la candidatura del senegalese Bathily, considerata «un cavallo di Troia» manovrato dal re del Marocco.
Rabat è decisa a riprendere il suo posto nell’organizzazione panafricana, che aveva lasciato nel 1984 in seguito all’ammissione della Repubblica dei Sahrawi (l’ex Sahara Occidentale per cui l’Algeria per prima chiede il diritto all’autodeterminazione) che i marocchini considerano invece cosa loro (contro la linea delle Nazioni Unite). Questo scontro indiretto tra i due vicini del Nord Africa influenza notevolmente gli equilibri in seno all’Unione dei 54. Negli ultimi mesi re Mohammed VI ha fatto la spola visitando diverse capitali da Abuja alla Tanzania, mentre Bouteflika (bloccato dai postumi di un ictus che l’ha colpito nel 2013) ha risposto promuovendo una serie di convegni sul ruolo dell’Algeria nella storia della decolonizzazione.
È una questione complicata, ancora tutta da giocare, per cui il rientro marocchino implicherebbe la sospensione della Repubblica Sahrawi, richiesta avanzata ufficialmente da 28 Stati (senza ottenere la necessaria maggioranza qualificata). Le alleanze sono fluide: all’asse Algeri-Pretoria ha risposto il leader ruandese Paul Kagame che si è schierato col Marocco, mentre anche la Nigeria del neopresidente Buhari sembra più aperta che in passato alle richieste della monarchia alawita.
La battaglia sull’ex Sahara Occidentale potrebbe servire a far dimenticare i problemi veri e le falle di un’organizzazione che deve cambiare passo se vuole riprendere il treno dell’«Africa Rising». La presidenza Dlamini-Zuma (che nel 2012 fu votata, alla faccia del post-colonialismo, dai Paesi anglofoni e osteggiata dai francofoni) non ha rialzato la reputazione dell’Unione, che non ha saputo imporsi neppure nei confronti del piccolo Burundi, il Paese più povero del mondo, che l’anno scorso ha impedito l’invio annunciato di una forza di pace panafricana per tamponare la crisi tra il presidente Nkurunziza e l’opposizione con il rischio di uno scontro genocida tra tutsi e hutu.
Al tempo dell’epidemia di Ebola, sono serviti otto mesi all’ex moglie del presidente sudafricano Jacob Zuma per convocare il primo vertice d’emergenza. Lo scorso dicembre, a Dakar, al Forum internazionale sulla Sicurezza in Africa, era presente Federica Mogherini per l’Europa ma nessun alto dirigente della UA. Tutti segni che dimostrano, a 15 anni dal primo vertice dell’Unione, quanta strada resti da fare. Il ruandese Kagame presenterà all’Assemblea dei leader un piano di riforma. Rinverdirà il progetto di una Corte di Giustizia africana rimasto finora lettera morta, mentre è diventato di moda abbandonare la Corte Penale Internazionale accusandola di avercela soltanto con i leader neri? La prima Organizzazione dell’Unità Africana nacque nel 1999, a Sirte, in Libia, per volontà di Muhammar Gheddafi. Nella sua megalomania, il Colonnello sognava qualcosa di simile agli Stati Uniti d’America, con se stesso nella parte di un George Washington beduino. Oggi a Sirte, città natale del Rais, comanda l’Isis. È un paradosso, ma l’Africa che si riunisce ad Addis Abeba avrebbe bisogno di riacquistare almeno un po’ di quella megalomane visione. Per rimettere il futuro al suo posto. E per poter affrontare, con sano pragmatismo, i bisogni veri, le aspettative del «popolo del buio».