Corriere della Sera - La Lettura
Da Padova alla Lapponia sulla Fiat 124
Matteo Righetto fa i conti con «l’effetto commozione» in «Dove porta la neve», storia di una donna malata, del figlio Down e di un inaspettato incontro che si trasforma in viaggio
Si presenta come una narrazione che si trova a fare i conti con l’effetto «commozione» il percorso intrapreso nei suoi ultimi romanzi da Matteo Righetto, riconfermato in questo Dove porta la neve dal titolo un po’ alla Tamaro; e scommettendo sulla dinamica di una interiorità indagata con prospettiva interna.
Una continuità che si ritrova anche nelle situazioni familiari in sofferenza, un paesaggio (non solo montano ma anche di pianura, sia pur coperto di neve) che parla, un personaggio salvifico (un cacciatore) in parallelo col pastore di Apri gli occhi, il contrasto montagna-città, una presenza ospedaliera; ma che risiede soprattutto nella scelta tematica: di adulti in cerca di riscatto. Con qualche variante. Perché anziché un ragazzo, l’attenzione è posta su un figlio, Carlo, di 48 anni, affetto da sindrome di Down, che vive solo; mentre al posto di genitori mossi da un senso di colpa sta la madre, Nora, di 87 anni, allettata in ospedale e «sempre più magra e fiacca», che quel figlio s’ostina a vedere come «semplicemente un bambinone per natura». Due situazioni di per sé statiche, salvo che per le loro menti: con Nora che rivive momenti lontani della sua vita, e Carlo assorbito da fantasie infantili, che paiono concretizzarsi nella settimana precedente il Natale quando dalla sua finestra vede, fuori del supermercato di fronte a casa sua, un Babbo Natale, cui non par vero di potergli dare di persona quella lettera da sempre senza risposta che ogni Natale gli scrive chiedendogli doni non per sé ma per la mamma.
Solo che sotto quel costume ci sta Nicola, 74 anni, in perenne ricerca di qualche lavoretto per poter sopravvivere con dignità anche economica, già pesandogli la vita «per i ricordi, i rimorsi, la nostalgia e la vecchiaia», ma che per Carlo decide di trasformarsi in un vero Babbo Natale, organizzando un viaggio sulla sua vecchia Fiat 124, «verso la Lapponia», quale che sia essa per Carlo o per Nicola, che si mostra ricco di attese, suspence e tratti epici.
E ne viene una fiaba natalizia definibile nei suoi termini esteriori come «Miracoli a Natale». Il viaggio per Carlo; e l’avveramento per vie misteriose, nell’impossibilità di provvedervi Carlo, dei desideri di Nora. Una fiaba però volutamente non lineare, perché il leitmotiv del viaggio è continuamente increspato da una ricostruzione a specchio delle vicende di Nora da un lato e di Nicola e di Carlo dall’altro. Ma soprattutto non lineare proprio per via della ricordata prospettiva interiore ai personaggi.
Il racconto si svolge infatti, dal punto di vista dei personaggi, su due diversi binari. Femminile quello di Nora e del rapporto che vive con la giovane volontaria Bianca, cui in certi giorni «ricorda, e racconta». E sono «racconti di montagna» di una Nora montanara ladina di Cherz tra- sferitasi in città col matrimonio. Racconti «di formazione»: di un’avventura nella neve vissuta negli anni Trenta, quando ha fatto di tutto per giungere in tempo a Belluno per sostenere l’esame in un concorso magistrale, in giorni di nevicate che hanno paralizzato l’intera circolazione della regione.
Binario maschile il secondo: con Nicola e Carlo che si trovano a vivere una analoga avventura, ma in pianura, tra Padova e Rovigo, nel bel mezzo di una grande nevicata del dicembre 2016. Percorsi disposti su situazioni cronologiche differenziate; con quella di Nora che si bilancia tra il presente delle visite di Carlo e di Bianca e il passato memoriale; e quella di Carlo che a sua volta passa dal presente del viaggio sulla Fiat 124 e l’immediato passato della sua conoscenza con Nicola. E, anche per loro, il passato di ciascuno: storie di due diverse solitudini che si incontrano; di due sconfitti dalla vita: Nicola con perdita del lavoro e anche della compagna, per la scelta egoistica di non volere figli; e di Carlo, persona Down, presto orfana di padre, e con la madre da mesi in ospedale.
Ma è proprio agendo sui personaggi che Righetto dà spessore a un libro e a una trama in sé semplici.
In quel farli rivivere da sé, dal loro guardarsi dentro, nel far muovere dall’interno non solo pensieri, ma pure abitudini; persino i tic di Nicola come di Carlo con le loro colazioni, il guardarsi o meno allo specchio, i medicinali, e quello sbirciare di Carlo nella camera dei genitori, che pur sa essere vuota. Di un Nicola che avverte a sera il vuoto interiore causatogli dall’egoismo. E di un Carlo che a sera, dopo le preghiere, «si abbraccia forte […] e vorrebbe ricevere tanti abbracci […] anche se non ha il coraggio di dirlo a nessuno». E in mezzo, il destino, che porta a Nicola il dono degli «altri» e a Carlo quello dell’abbraccio.
E lo stesso per Nora: dove il racconto del viaggio per il concorso si trama di momenti epici, facendosi racconto della «più grande lezione che la vita mi ha insegnato». Un racconto che ha spessore perché vissuto internamente; che è quanto non accade quando invece Nora «sogna»: come nel sogno della notte di Natale, stilisticamente costruito dall’esterno.
Un romanzo affidato ancora una volta a una essenzialità di scrittura e di dialogo, e a una prosa diversificata a seconda delle situazioni. Ove, se rispetto al passato romanzo è più controllato certo innamoramento da prosa poetica, forse anche per l’atmosfera natalizia non così accade per qualche leziosità di troppo. Espressiva. Ma pure concettuale.