Corriere della Sera - La Lettura
Gentaglia di Dublino
«The Dark» è il secondo romanzo dei sei scritti e il terzo a essere tradotto in italiano di un autore considerato tra i più influenti della sua terra. Il tono dominante è quello della delusione: una delusione esistenziale che contagia tutti John McGahern
Tra il secondo film di John Carney, Sing Street, e il primo, On
ce, ho letto i tre romanzi tradotti in italiano di John McGahern (1934-2006). I film di Carney, ambientati nella Dublino di qualche tempo fa, sono una meraviglia di luce e di giovinezza, di delicatezza e pudore: una rarità. Tutt’affatto diversi i romanzi di McGahern, nato nel 1934 e venuto meno nel 2006, ma anch’essi ambientati (in parte, sebbene minore) nella Dublino dei decenni successivi alla guerra d’indipendenza irlandese. Sono romanzi di una linearità e di una asciuttezza ai limiti della patologia: mai un’incrinatura emotiva, mai un giro di sintassi meno che elementare. Ma sono anche romanzi spietati, di incomparabile durezza: l’esatto contrario dei film di Carney.
In Irlanda, McGahern è ritenuto il padre spirituale di Colm Tóibín. Ma non ne sarei così sicuro. Stando allo svolgimento del discorso narrativo e (anche qui in parte) agli stessi contenuti, si potrebbero dire padri di Tóibín scrittori come Brian Friel e l’appena scomparso William Trevor. Semmai più vicino a questi che a McGahern, Tóibín è uno scrittore che sotto traccia — sempre la stessa, uniforme e priva di scatti sintattici ed emotivi secondo l’esempio del joyciano Gente di Dubli
no — lascia correre una quantità di motivi, di contraddizioni, di imprevedibili sviluppi. Al contrario, la forza di McGahern — se tale rimane nel corso della lettura dei tre romanzi tradotti, tra i sei da lui pubblicati — è tutta nella saldezza, nell’inscalfibilità dell’unica sua ragione.
Vi è in The Dark (minimum fax), suo secondo romanzo del 1965, in Il pornografo del 1976 (Einaudi), in Moran tra le donne del 1990 (Einaudi), un tema ricorrente che si sdoppia per virtù narrativa: è la delusione di fronte allo spettacolo del Paese per la cui libertà si è lottato. La delusione di fronte alla sua immobilità, alla sua povertà, al tradimento che i figli e gli stessi padri stanno perpetrando.
Come si sdoppia e quotidianamente si manifesta tale delusione? In un sentimento che nei romanzi che conosciamo, d’ogni tempo e d’ogni lingua, mai con altrettanta potenza avevamo incontrato: nell’odio purissimo del padre per il figlio e del figlio per il padre. Il padre ne offre una manifestazione più plateale, più vigorosa. Il figlio cerca di resistere all’impulso negativo che prova, specie se è una figlia: l’odio del figlio è più forte fino alla maggiore età e va gradualmente allentando la propria morsa con il passare degli anni e lo spazio che mette tra sé e il luogo in cui è nato e vissuto negli anni d’infanzia con il padre (la distanza che c’è tra Galway e Dublino o tra l’Irlanda e l’Inghilterra, ovvero Londra). L’odio del figlio ha una quantità di sottigliezze: nessuna delle quali sfugge all’attenzione di McGahern. È il rapporto, o la lotta, tra queste due specie di sentimento che costituiscono il nerbo (la struttura) di un racconto che, giudicando la distanza tra il romanzo del 1965 e quello del 1990, mai è venuto meno: è andato anzi rafforzando le proprie ragioni. Il pornografo (il meno felice dei tre) e
Moran tra le donne erano usciti in Italia negli anni Novanta: è la pubblicazione di
The Dark a renderli eloquenti. Eloquente è la continuità, se non l’analogia, che li rende parti di un corpo unico. Protagonista di The Dark è il figlio, che ne è parzialmente il narratore: solo in tre capitoli in prima persona, gli altri in terza o in seconda. Ne è protagonista nel senso che egli racconta della propria infanzia (priva di madre), delle sorelle Joan e Mona, della scuola, del cugino prete Gerald (che a lui suo ospite gli si infila nel letto, facendogli di colpo passare ogni velleità di diventare uomo di chiesa), della sua carriera scolastica, della conseguita borsa di studio per iscriversi all’università, della rinuncia a quanto da lontano sembrava una meta, un sogno. Ma soprattutto racconta del padre Mahoney, della sua intemperanza, delle sue asfissianti prediche, dei suoi ammonimenti, della sua violenza nelle parole e negli atti: «Capitava che li picchiasse, spesso senza motivo, se li sorprendeva a ridere quando era di cattivo umore; ma loro avevano imparato a vendicarsi negandogli l’accesso alle loro vite e lasciandolo solo con se stesso». Inutile dire che le reazioni del figlio maschio e delle due femmine ulteriormente inaspriscono il padre, almeno fino alla sua impalpabile redenzione finale, quando il figlio prima otterrà la borsa di studio e poi rinuncerà all’università per un più sicuro impiego presso un’azienda elettrica di Dublino. «Dannarsi — egli pensa — era altrettanto difficile che salvarsi l’anima». Ma anche: «Tu e Mahoney non avreste mai comandato, sareste sempre i servi della razza da cui veniva e a cui ancora apparteneva, tutt’al più potevi diventare un maestro di scuola».
Un romanzo maledetto che (ripeto) nasconde la sua natura nello specchio limpido della prosa e che l’edizione italiana, in copertina, pone in luce con la fotografia di quegli scarponi slacciati e sformati, scarponi la cui presenza (a terra) è dominante lungo l’arco dell’intero racconto. Ne Il pornografo acquista rilievo nel titolo uno dei sottotemi ricorrenti: la sessualità, il suo problema, la repressione ossessiva che esercitano religione cattolica e cultura stratificata da secoli, nelle campagne ma anche in città, occu- pando la scerna e impedendo la vita o, se si vuole, la libertà.
Il protagonista de Il pornografo ha 30 anni, per vivere scrive storie pornografiche. Intraprende una relazione con una ragazza di 38 anni che, a questo punto, ambisce solo al matrimonio, ma è inquieta, non riesce a capire come lui possa scrivere quelle cose, non capisce che rapporto abbiano o possano avere con loro due. Lui, al rapporto, è riottoso, e quasi restio; lei è esuberante e ardente. Eppure decide che sarà meglio andare a Londra prima delle nozze mantenere una distanza. L’estenuante su e giù del ragazzo tra l’Irlanda e l’Inghilterra non può che logorare il rapporto. S’infittiscono i dialoghi, diventano sempre più inutili, diventano (nella stessa economia del romanzo) ripetitivi ridondanti, fittizi: McGahern finge, come accadrà in Moran, che vi sia dialogo là dove non vi dovrebbe essere che il normale proseguimento del racconto in prima persona. Ma anche il racconto sarebbe uguale a se stesso: l’uomo sarebbe (è) sempre più cauto; la donna liberata, felice, protesa, sarebbe (è) ugualmente salda nelle sue certezze, ovvero nel suo desiderio di stabilità e di economia. La donna di 38 anni porta l’uomo di 30 alla stessa conclusione cui era giunto a venti, quando, in The Dark, aveva abbandonato l’università: «Dovevamo abbandonare la strada della ragione, perché ci occorreva andare oltre. Non possedere una ragione è ragione anche migliore per seguire l’istinto che ci porta al vero, per seguirlo con la forza che abbiamo, in tutto ciò che vediamo, fino alla definitiva cecità».
Tuttavia non sono né l’istinto né la cecità il meglio. Lo vediamo con chiarezza quando McGahern ritorna sui suoi passi e ricomincia da capo: le donne che cir- condano Moran sono le tre figlie: Mona, «l’unica che non si era sposata» ma che vive a Dublino, Sheila e Maggie, che non torna regolarmente in campagna, a Great Meadow, «perché la tariffa aerea da Londra era troppo cara». Ci sono anche i figli maschi: Michael il più piccolo (che già è andato via di casa e che ne vuole sapere il meno possibile) e Luke. E c’è anche Rose, che piena di speranza ha sposato il vedovo Moran. Costui, un allevatore di bestiame, a casa sua è di fatto un re ma, a differenza di Lear, non chiede di essere amato, vuole essere ubbidito: dalla moglie e dalle figlie, dai figli tutti. È così dispotico, così cieco (a proposito di cecità) da allontanare da sé il vecchio compagno d’armi McQuaid, un uomo che non condivide la sua fede religiosa, il suo cattolicesimo senza sfumature.
C’è qualcosa di selvaggio, in Moran, che con il passare del tempo non si attenua, come era successo (un poco, appena appena) al vecchio Mahoney. Al contrario verso la fine, «la sua avversione per il passato era incrollabile e ormai l’inizio della loro vita di coppia rappresentava il passato». Anche la seconda moglie Rose diventa una donna come le altre, una vittima sacrificale: sull’altare di un mondo che non muta se non in peggio. Esso muta senza essere sfiorato dalla Storia. Moran non muta perché mai s’era piegato «di fronte al concetto dell’Altro», unica parola maiuscola che McGhaern si sia lasciato sfuggire nel corso dei tre romanzi.