Corriere della Sera - La Lettura
Stavolta Harry Bosch salta il fosso
In «Il passaggio» Michael Connelly fa incontrare il suo leggendario investigatore, sospeso dalla polizia, con un altro dei suoi protagonisti seriali, l’avvocato Mickey Haller. Una storia che rovescia i punti di vista ai quali l’autore ha abituato i lettor
Avevamo lasciato Harry Bosch sul punto di abbandonare il Dipartimento della polizia di Los Angeles, spogliato del distintivo e dell’arma, sospeso fino alla conclusione di un’indagine interna: una scena ricalcata sull’epilogo dell’Attimo fuggente, con la leale collega Lucia Soto in piedi sulla scrivania — le lacrime agli occhi — che lo applaude, imitata dai pochi amici del detective più anziano e più indigesto per le alte sfere. «Appoggiò la schiena alla porta. Ringraziò con un cenno del capo e con il pugno sul petto. Poi aprì la porta e uscì»: è l’amaro finale della Strategia di Bosch, uscito l’anno scorso in Italia.
Ora ritroviamo Harry in un’aula di tribunale, a godersi lo show oratorio del fratellastro Mickey Haller, difensore di un poco di buono ingiustamente fermato dalla polizia. «I cittadini sono liberi di viaggiare e muoversi a volontà negli Stati Uniti!», scandisce l’avvocato che ha fatto di una Lincoln il suo ufficio ed è finito sul grande schermo ( The Lincoln Lawyer, 2011) con il volto da impunito di Matthew McConaughey. Il tasto giusto: lo spirito nomade degli americani (che alla fine degli anni Quaranta aveva colpito Georges Simenon, in viaggio dal Maine alla Florida su una Chevrolet comprata al mercato nero) non scende a patti. Un cavillo formale incuneato nella crepa del castello accusatorio e la mozione della difesa sfonda: poliziotti messi in ridicolo, prove a carico del cliente soppresse. Ottimo lavoro Mickey…
Il titolo del nuovo romanzo di Michael Connelly, Il passaggio, ha a che vedere con il fiume di disprezzo che si agita fra le due sponde del sistema legale. Da una parte la polizia, a caccia di criminali senza andare per il sottile; dall’altra gli avvocati della difesa, con le loro acrobazie sul filo della giurisprudenza per salvaguardare i diritti dei clienti e, nel caso, risalendo la corrente del pregiudizio, affermarne l’innocenza.
Non è la prima volta che Bosch e Haller, figliastri di un celebre avvocato, s’incontrano: a Connelly piace incrociare i destini dei suoi personaggi seriali. Ma qui il rapporto è più stretto che mai: Harry, in pensione, assume Mickey per rappresentarlo nella causa contro il Dipartimento di polizia, che lo ha costretto ad andarsene ricorrendo a tattiche illegali; Mickey ingaggia Harry per togliere dalle spalle di un disgraziato l’accusa di avere brutalmente ammazzato Lexi Parks.
Non è facile convincere Bosch. Accettare l’incarico significa saltare il fosso e beccarsi dagli ex colleghi l’infamante appella- tivo di «Jane Fonda», l’attrice simpatizzante per i nordvietnamiti. È il «passaggio» evocato dal titolo: trasferirsi sulla sponda opposta della città, il «fiume di luce e acciaio» che scorre sotto la sua terrazza, sulle alture di Cahuenga Pass. Ma l’istinto, come al solito, schiaccia l’amor proprio. Ad accendere la scintilla è più il pensiero insopportabile di un assassino a piede libero che la compassione per l’innocente. Harry accetta, accantona il progetto di restaurare la sua vecchia Harley, quella di Lee Marvin nel Selvaggio, e si mette sulle tracce del male. Connelly gioca a carte scoperte: come Hitchcock, predilige la suspense alla sorpresa. Rivela subito che a tirare le fila dei delitti sono due poliziotti corrotti, perché sa che da quel momento la domanda che martellerà la mente del lettore è: come farà a incastrarli? Bosch porta sull’altra sponda tutto se stesso: è ancora il cacciatore che è stato per trent’anni, il detective senza pari nell’afferrare i fantasmi che aleggiano sulla scena del crimine.
Una delle pagine di maggiore impatto descrive un «quadro agghiacciante» formato dalle dozzine di foto del corpo di Lexi Parks, prese da angoli e distanze diverse. Non è altro che l’orrenda trasfigurazione del Giardino delle delizie di Hieronymus Bosch, il dipinto che alla madre di Harry ricordava Los Angeles («Un panorama d’incubo affollato di predatori e vittime»: in Ghiaccio nero, 1993). Là, nel pannello centrale del trittico, una scena luminosa e formicolante di nudità impegnate in sfrenati giochi amorosi; qui, nel «mosaico raccapricciante» sotto gli occhi di Harry, una folla di fantasmi ammassata con la riproduzione ossessiva dello stesso corpo di donna, livido e devastato dalla violenza. Dal bordo del precipizio, dove la colloca il pittore olandese, l’umanità si ritrova sfracellata sul fondo.
Durante la caccia, l’ex funzionario comincia ad assaporare il piacere della libertà di movimento, di non dover sottostare alle regole procedurali. Il passaggio si è compiuto ma non ha cambiato il malinconico, solitario, spigoloso Harry Bosch. È ancora lui: un uomo con le cicatrici pulsanti (il rapporto con la figlia, il vuoto di una donna), il predatore di cui Los Angeles continua ad avere bisogno.