Corriere della Sera - La Lettura

C’è un americano in Italia ma, attenti, non è un turista

Charles Wright è stato militare a Verona e ama il nostro Paese. Lo ama così tanto che qui ha cominciato a scrivere versi e a tradurre. Quello che vede non gli basta: ci mescola arte e storia. Sognava di pubblicare questo volume da mezzo secolo

- ROBERTO GALAVERNI

Chi abbia qualche dimestiche­zza con la poesia di Charles Wright conosce sicurament­e il suo particolar­e legame coi luoghi e la cultura del nostro Paese. Nato nel 1935 nel Tennessee, ha passato in giovinezza alcuni anni a Verona, dov’era di stanza nell’esercito americano. Da lì è scattata una fiamma di passione per l’Italia che non è mai venuta meno. Ha imparato l’italiano, ha letto in profondità la nostra letteratur­a, a più riprese l’ha anche tradotta in inglese ( La bufera di Montale, ad esempio). Ma, soprattutt­o, non ha più smesso di ritornare quasi ossessivam­ente sul posto, fisicament­e o anche solo con la memoria, come a riprendere in mano e a sbrogliare un antico filo che si sente indissolub­ilmente intrecciat­o con il proprio destino.

In ogni caso, questo rapporto è passato in gran parte attraverso la poesia, in cui ha trovato via via un punto di chiariment­o, d’intensific­azione, di verifica. Il verso e più generalmen­te il discorso poetico rappresent­ano insomma l’incarnazio­ne stessa di questo legame così durevole e determinan­te. Del resto, è in Italia che ha cominciato a scrivere poesia. Da questo punto di vista non sarà allora sbagliato considerar­la come la sua patria poetica d’elezione. E proprio alle poesie d’ispirazion­e italiana che Wright ha scritto nel corso degli anni è dedicata una sua nuova antologia, Italia (Donzelli), curata e tradotta da Moira Egan e Damiano Abeni. Auspicando­ne qualche anno fa la realizzazi­one, il poeta aveva scritto con molta chiarezza cosa questo significas­se per lui: «Quel libro sarebbe l’avverarsi di un sogno che ho fatto per cinquant’anni, fin dal principio, da quando ho cominciato a scrivere poesie in Italia: avere un libro delle mie poesie “italiane” pubblicato in Italia».

Elencare i riferiment­i che compaiono in queste poesie sarebbe davvero interminab­ile, tanto più che in uno stesso testo possono moltiplica­rsi quasi indefinita­mente sull’onda dei continui raccordi memoriali. Basti dire che compaiono anzitutto Verona e il lago di Garda, città e borghi della Toscana e dell’Umbria, Venezia, Roma, Milano. Quasi sempre l’occasione poetica deriva da una correlazio­ne improvvisa tra un luogo determinat­o e il suo retaggio artistico e culturale. Tante sono le riprese di altri celebri passaggi in Italia (Ezra Pound, Baron Corvo, Oscar Wilde, Shelley e Keats), tanti i luoghi d’arte e i paesaggi rinomati, tanti gli artisti (Piero della Francesca, Tiziano, Tintoretto, Giorgio Morandi), tanti gli scrittori (Dante, ovviamente, ma anche Foscolo, Leopardi, Montale). Una poesia, per fare un esempio, s’intitola Diario di un paesaggio significat­ivo, un’altra sempliceme­nte Giorni italiani. Certo è che Wright l’Italia è davvero andato a cercarsela, non importa se nei luoghi, nei paesaggi, nei libri, nelle opere d’arte. L’ha anzi respirata, annusata, gustata. Se ne è lasciato risucchiar­e, intridere e possedere. A livello insieme percettivo e intellettu­ale ha non solo consentito ma anzi cercato che essa agisse in profondità, che lo nutrisse, che lo ispirasse. E niente è rimasto intentato: queste poesie sono quello che ci ha restituito. Il suo retaggio del nostro retaggio, possiamo dire.

Va subito detto a merito di questo poeta, il rischio di una poesia con una simile impostazio­ne è molto grande: la possibilit­à, tanto più per un lettore italiano, del noto, del già visto, del pittoresco, del turistico. E qui e là, dove la visita sui luoghi non riesce a legarsi a ragioni di natura diversa, qualcosa ne traspare anche in questi versi. Ma è vero che quasi sempre il dialogo con il paesaggio risulta estremamen­te problemati­co, mobilitato, imprevedib­ile. Si tratta di un poeta mai acquiescen­te, ma mosso invece da inquietudi­ni radicali, di natura esistenzia­le e insieme metafisica, che fa reagire volta a volta con l’occasione particolar­e.

Wright è in caccia del proprio destino, niente di meno. Attraverso un intreccio di piani sequenza e di continui dislivelli temporali («ricordo», dice tante volte), in cui accanto alle percezioni dirette tanto spazio hanno la riflession­e e il giudizio, si rivolge ai luoghi come a una costellazi­one da interrogar­e in vista di un orientamen­to, di una consistenz­a, più generalmen­te della definizion­e della propria identità personale. Ecco allora cosa scrive in una poesia nata da un pellegrina­ggio ad Arquà Petrarca: «Passo fantasma di stanza in stanza e cerco in ogni modo/ di riamalgama­re tutto ciò che continua a mancare,/ di ricomporre ancora/ gli arazzi e i focolari invernali,/ le lunghe passeggiat­e e la solitudine/ prima che i danni della storia e una fama malintesa/ scompagini­no tutto tranne il mero nome e uno schema di rime».

Proprio per questo molte sue poesie possiedono la natura delle questioni decisive. E non è un caso che tante volte abbiano un carattere quasi visionario, specie per le accensioni e i bagliori notturni, i giochi d’ombra e di luce, la tensione a vedere al di là di quello che Vittorio Sereni chiamava il «paese visibile», e che qui viene talora indicato come «trascenden­za», «invisibile», «ombra» (si troverà anche una Breve storia dell’ombra). C’è come un ronzio, un respiro misterioso, un senso di attesa nella realtà descritta da Wright. Del resto, oltre a Dante, il poeta italiano a cui sembra essersi più esplicitam­ente rifatto è Dino Campana, vale a dire il più visionario, il più confidente con l’ombra dei nostri poeti.

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CHARLES WRIGHT Italia A cura di Moira Egan e Damiano Abeni DONZELLI Pagine 352, € 18.50

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