Corriere della Sera - La Lettura
Il segno del New Deal. Tatuato
La politica di Roosevelt ebbe un forte respiro globale. S’ispirò a modelli stranieri e suscitò molti tentativi d’imitazione. Ma ancora nel 1941 l’unica auto blindata della Casa Bianca restava quella sequestrata ad Al Capone
Un buon consiglio per chiunque abbia voglia di giungere informato all’ormai prossimo avvicendamento alla Casa Bianca (20 gennaio) è quello di informarsi su altre transizioni presidenziali del passato, non meno stridenti di quella alle porte. Un motivo in più per leggere il recente volume The New Deal (Princeton University Press) dedicato da Kiran Klaus Patel alla presidenza di Franklin D. Roosevelt e alla politica che egli promosse.
Il New Deal, al netto di semplificazioni e mitizzazioni, fu soprattutto un modo nuovo di intendere il ruolo del governo nella vita quotidiana degli statunitensi e nell’organizzazione della comunità nazionale. La rassegna delle innumerevoli agenzie governative create all’epoca per risollevare il Paese dalla grave crisi e dargli un volto «moderno» offre all’autore l’opportunità di raccontarci quanto il New Deal abbia cambiato il paesaggio degli Stati Uniti: dalla fondazione di «città ideali» di media grandezza per contrastare l’inurbamento nei centri maggiori, all’invio di giovani tecnocrati nelle più remote campagne per insegnare a perplessi contadini le ultime innovazioni in materia di agricoltura intensiva. E tuttavia il New Deal non trasformò soltanto il profilo fisico del Paese, ma mutò il modo in cui i suoi cittadini lo percepivano e lo sperimentavano quotidianamente: lo prova ancora oggi la rete delle highways, le autostrade di lunga percorrenza realizzate all’epoca, che resero gli Usa più piccoli e ben presto entrarono nell’iconografia cinematografica e nell’immaginario collettivo. Nel complesso, secondo Patel, il New Deal produsse una mutazione fondamentale del rapporto tra Stato e cittadini e comportò un significativo avanzamento qualitativo delle tecniche di governo (dalla statistica alla pianificazione territoriale, dalla gestione delle migrazioni alle articolazioni del welfare), per mezzo delle quali la società americana è stata resa «leggibile e governabile».
Una simile rivoluzione produsse avanzamenti (pur coi limiti rimarcati dall’autore) in termini di modernizzazione strutturale, di contrasto alle sregolatezze del sistema economico e di progresso sociale diffuso quanto mai in precedenza. D’altro canto essa comportò un incremento dell’intromissione statale nella sfera privata e spesso una riduzione dei cittadini a termini quantitativi e numerici, simbolizzata dall’introduzione del Social security number (grossomodo antenato del nostro codice fiscale, che, Patel ci informa, qualche fanatico modernista giunse persino a tatuarsi sul braccio). Facile concludere che, da quel momento in poi, il New Deal sia divenuto la pietra di paragone su cui valutare l’incisività di qualunque progetto presidenziale, soprattutto in considerazione della scarsità di mezzi, oggi inimmaginabile, con cui l’amministrazione federale si trovò a operare: ancora all’indomani dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, nel dicembre 1941, il presidente Roosevelt dovette compiere il breve tragitto che lo portò dalla Casa Bianca al Congresso a bordo della Cadillac corazzata sequestrata al gangster Al Capone più di dieci anni prima, dato che nessuna vettura in possesso del governo federale disponeva di standard di sicurezza comparabili.
Soprattutto, però, l’originalità del volume nasce dall’assunto che il New Deal, «periodo schiacciato tra due eventi eminentemente globali come la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale», non possa essere spiegato entro i confini della vicenda nazionale, come pure molta storiografia statunitense ha tentato di fare a lungo. Globale era la crisi da cui esso scaturì, e alla quale «tutte le nazioni attorno al globo reagirono (…) con una massiccia mobilitazione di società e Stato, condividendo spesso un’ideologia “alto-modernista” che enfatizzava le interconnessioni del progresso tecnologico e sociale, la fattibilità del cambiamento sociale e il disegno razionale dell’ordine sociale».
Per questo, piuttosto che concentrarsi sulle radici endogene del New Deal, Patel ricava maggiore profitto da un’indagine sulle strade per le quali le esperienze e la conoscenza hanno viaggiato all’epoca, talvolta intraprendendo percorsi insospettabili. Così veniamo a conoscenza di quanta ispirazione i New Dealers traessero dai risultati raggiunti in vari Paesi europei (principalmente Gran Bretagna e Stati scandinavi) nel campo del welfare; o come si studiassero specifici istituti persino della Germania nazista e dell’Urss, magari con l’obiettivo di replicarli depurandoli degli aspetti meno accettabili. Altrettanto sorprendente è la scoperta di alcuni esperimenti sociali promossi dai New Dealers fuori dai confini nazionali, soprattutto in America Latina, prima di tentare la loro replica in patria. La valutazione nel contesto globale porta Patel a contrastare l’assunto, affermato dai critici del New Deal di ogni epoca, secondo cui le sue caratteristiche di pervasività e radicalità lo collocherebbero alla stregua degli esperimenti coevi di palingenesi sociale portati avanti dai regimi totalitari. Proprio la comparazione nel dettaglio non fa che ribadire quanto invece il New Deal abbia preservato e possibilmente ampliato la democraticità del sistema da cui traeva fondamento; e quanto la sua costruzione abbia comportato un livello di coercizione infinitamente minore rispetto a ogni altro paragone. Tra la fedeltà ai piani originali e le resistenze delle forze sociali, Roosevelt e i suoi collaboratori finirono sempre per negoziare, rettificare ed eventualmente per cedere, anche a costo di annacquare l’ispirazione originaria.
I paragrafi finali sono dedicati a due aspetti forieri di conseguenze per il futuro. La mitizzazione del New Deal, favorita dall’ascesa degli Stati Uniti a superpotenza mondiale, ne avrebbe fatto il simbolo idealizzato e ingenuo di un felice matrimonio tra modernizzazione e progresso sociale anche oltre i suoi meriti reali e la sua replicabilità: a cominciare dalle decine di «Valley Authorities», nate ovunque nel mondo su imitazione di quella originale inaugurata nel Tennessee, spesso con evidenti distorsioni e discutibili ricadute sul piano sociale e ambientale.
Infine, Patel è abile nel mostrare come l’ingresso in guerra abbia privato il New Deal del suo carattere eminentemente civile, contribuendo all’imponente mobilitazione che consentì di ribaltare le sorti del conflitto, ma anche alla nascita del complesso militare-industriale, che avrebbe condizionato fortemente i decenni a venire. Più ancora, il brusco passaggio alla guerra fredda dopo il 1945 avrebbe distorto l’ispirazione originale del New Deal in modo significativo. Se inizialmente il progresso sociale e la modernizzazione erano concepiti come una componente fondamentale della difesa della libertà e dell’American way of life contro ogni minaccia autoritaria, presto l’impegno statunitense nel contrasto del comunismo su scala globale avrebbe ricomposto i due imperativi in senso gerarchico, con una prevalenza esasperata delle esigenze di sicurezza sulle legittime aspirazioni di libertà e giustizia di molte popolazioni.
Dosando sapientemente originalità di approccio, completezza di informazione e aneddoti sorprendenti, il volume di Patel contribuisce dunque alla rilettura critica e proficua di un momento chiave della storia recente degli Stati Uniti che non può mancare di fornire spunti di riflessione anche a chi si interroga sul loro prossimo futuro, senza pretendere impossibili divinazioni.