Corriere della Sera - La Lettura
Il jazz aiuta la filosofia, meno il contrario
Il pianista Arrigo Cappelletti, con un passato da insegnante nei licei, si chiede se un genere meticcio basato sull’improvvisazione e il pensiero occidentale possano dialogare. Naturalmente sì, con qualche sorpresa
La questione Dalla tradizione afroamericana viene musica che mette il corpo al centro dell’esperienza: uno scarto rispetto alla speculazione
«L’improvvisazione crea e intenziona in tempo reale un numero pressoché infinito di forme che non sono date a priori ma scaturiscono in modo naturale nel corso del processo, dal quale risultano fondate e nel quale rientrano appena non servono più». Benvenuti nel mondo della filosofia jazzistica o del jazz letto alla luce del pensiero filosofico.
C’era una volta, immaginato più che realmente esistito, il jazz naïf: la metamorfosi musicale del buon selvaggio d’illuministica memoria. La riflessione sul tema è venuta dopo. E ci si è accorti che la natura dal jazz è intrinsecamente complessa, animata com’è da quella linea d’ombra che unisce Occidente e Non-Occidente. È per questo che oggi questa musica può essere usata anche per ragionare di filosofia e forse — addirittura — per rendere la filosofia più immediata e comprensibile. È legittimo chiedersi, per esempio, se esista un jazz «più filosofico» rispetto ad altri. Oppure quali siano gli aspetti della musica afroamericana che più riguardano quel pensiero: se il gioco delle forme o invece l’invenzione sempre nuova dell’improvvisazione, insomma il rigore strutturale oppure lo slancio creativo.
Il pianista Arrigo Cappelletti — laurea in filosofia e studi con Enzo Paci, attivo in questo campo nei licei prima di divenire musicista a tempo pieno (e titolare del dipartimento jazz al Conservatorio di Venezia) — ha messo per iscritto molte osservazioni sull’argomento in un volume, Le avventure di un jazzista-filosofo (Arcana). Si tratta di un testo composto di brevi capitoli spesso aforistici ed eloquente fin dal titolo: Cappelletti vive la sua professione come esplorazione e scoperta. E dunque della filosofia non lo interessa il lato più speculativo e teorico ma l’approccio pragmatico, come suggerito dalla fenomenologia di Paci: «La soggettività corporea è all’origine delle nostre categorie». Da queste riflessioni nasce la citazione con cui comincia quest’articolo.
Il corpo è appunto anche alla base dell’esperienza jazzistica, che un secolo fa diede una scossa a un’idea (occidentale) di musica sempre più basata sull’astra- zione, sulla trasformazione del suono in scrittura e pensiero. Cappelletti dialoga anche con altri pensatori del Novecento: Gilles Deleuze, James Hillman, Donald Davidson, Vladimir Jankélévitch fra gli altri, tutti autori per i quali l’«uscire da sé» è un elemento importante dell’analisi del mondo. Ma naturalmente è soprattutto il confronto con i colleghi musicisti che conta. Emergono, dalle pagine del jazzista, le sue icone pianistiche: Paul Bley, Thelonious Monk (due maestri a ciascuno dei quali ha dedicato in passato un libro), Andrew Hill, Cecil Taylor. Emerge anche proprio il pianoforte, oggetto di amore-odio: vertice della cultura musicale europea, razionale come una macchina per scrivere eppure giunto al massimo splendore all’epoca del «sentimentale» romanticismo, una stagione che il nostro autore mette in parallelo con le conquiste del jazz.
In verità la dialettica fra razionale e irrazionale resta al centro della riflessione. L’improvvisazione risulta «un modello alternativo (e altrettanto nobile) di composizione. Non caos privo di forma, non pura e semplice ricombinazione di pattern, non ripetizione coatta di automatismi inconsci». Questa definizione è una precisa scelta di campo. Nel jazz, musica dai mille risvolti e dalla rapidissima storia, incontriamo anche grandi jazzisti che ricombinano a modo loro i pattern, gli schemi dati, o non si preoccupano di pescare a piene mani fra gli automatismi.
Sono dunque molti i «modelli» esistenti. Soprattutto, pensare all’improvvisazione come a un «modello di composizione» rischia di riportare una musica tanto originale all’interno del pensiero occidentale da Cartesio in poi, dove l’arte è tanto più elevata quanto più è formalizzata e complessa. E a questa stessa logica si rivolgono le pagine nelle quali si discutono i «trucchi» di tanti musicisti, le astuzie di meccanica digitale o di captatio psicologica per portare dalla loro parte il pubblico.
Val la pena di notare che i jazzisti hanno sempre saputo vivere pragmaticamente all’interno dell’industria culturale e di quella dello spettacolo, che negli Stati Uniti sono particolarmente aggressive. Sostenere che «c’è un modo infallibile per capire se si è autentici jazzisti: se non ci importa niente del pubblico» fa pensare a una ben precisa modalità del fare jazz, quella dello sperimentatore assoluto, del «cacciatore di libertà», figura nobilissima che rimanda tuttavia più facilmente all’artista europeo. Nulla di male, in fondo, anche perché proprio nelle contaminazioni fra varie culture il nostro avventuroso pianista ha trovato come musicista una dimensione appagante e originale: prima abbracciando il nuevo tango (già molto europeizzato) di Astor Piazzolla, poi il fado portoghese, poi altre realtà geografiche, storiche e culturali del nostro continente. E negli appunti di viaggio (intellettuale) affrontati da Cappelletti tutto ciò emerge con molti particolari decisivi.
Particolarmente interessanti sono le pagine dedicate al ruolo del didatta in ambito jazz. È vero che insegnare l’improvvisazione (anzi, addirittura «insegnare a insegnare a improvvisare») può risultare una sorta di ossimoro; ma proprio l’esperienza filosofica può aiutare a superare l’impasse. L’insegnante di jazz (dello spirito jazz, non della sua maniera) può soffermarsi «sulle strutture generative» del fare musica e soprattutto dell’improvvisazione: approdare a creazioni «non idiomatiche» (il termine è del chitarrista Derek Bailey), che superino cioè i codici già organizzati storicamente. E poi privilegiare l’insegnamento individuale, perché «ogni musicista è differente». Importante, soprattutto in una musica che ha sempre puntato a creare voci uniche, subito riconoscibili. Ma qui c’è l’ennesimo paradosso che racconta la storia del jazz: una musica di individui nata dall’interazione collettiva, dalla musica di gruppo. Quante cose nel cielo e nella terra del jazz, Orazio…