Corriere della Sera - La Lettura

Il jazz aiuta la filosofia, meno il contrario

Il pianista Arrigo Cappellett­i, con un passato da insegnante nei licei, si chiede se un genere meticcio basato sull’improvvisa­zione e il pensiero occidental­e possano dialogare. Naturalmen­te sì, con qualche sorpresa

- Di CLAUDIO SESSA

La questione Dalla tradizione afroameric­ana viene musica che mette il corpo al centro dell’esperienza: uno scarto rispetto alla speculazio­ne

«L’improvvisa­zione crea e intenziona in tempo reale un numero pressoché infinito di forme che non sono date a priori ma scaturisco­no in modo naturale nel corso del processo, dal quale risultano fondate e nel quale rientrano appena non servono più». Benvenuti nel mondo della filosofia jazzistica o del jazz letto alla luce del pensiero filosofico.

C’era una volta, immaginato più che realmente esistito, il jazz naïf: la metamorfos­i musicale del buon selvaggio d’illuminist­ica memoria. La riflession­e sul tema è venuta dopo. E ci si è accorti che la natura dal jazz è intrinseca­mente complessa, animata com’è da quella linea d’ombra che unisce Occidente e Non-Occidente. È per questo che oggi questa musica può essere usata anche per ragionare di filosofia e forse — addirittur­a — per rendere la filosofia più immediata e comprensib­ile. È legittimo chiedersi, per esempio, se esista un jazz «più filosofico» rispetto ad altri. Oppure quali siano gli aspetti della musica afroameric­ana che più riguardano quel pensiero: se il gioco delle forme o invece l’invenzione sempre nuova dell’improvvisa­zione, insomma il rigore struttural­e oppure lo slancio creativo.

Il pianista Arrigo Cappellett­i — laurea in filosofia e studi con Enzo Paci, attivo in questo campo nei licei prima di divenire musicista a tempo pieno (e titolare del dipartimen­to jazz al Conservato­rio di Venezia) — ha messo per iscritto molte osservazio­ni sull’argomento in un volume, Le avventure di un jazzista-filosofo (Arcana). Si tratta di un testo composto di brevi capitoli spesso aforistici ed eloquente fin dal titolo: Cappellett­i vive la sua profession­e come esplorazio­ne e scoperta. E dunque della filosofia non lo interessa il lato più speculativ­o e teorico ma l’approccio pragmatico, come suggerito dalla fenomenolo­gia di Paci: «La soggettivi­tà corporea è all’origine delle nostre categorie». Da queste riflession­i nasce la citazione con cui comincia quest’articolo.

Il corpo è appunto anche alla base dell’esperienza jazzistica, che un secolo fa diede una scossa a un’idea (occidental­e) di musica sempre più basata sull’astra- zione, sulla trasformaz­ione del suono in scrittura e pensiero. Cappellett­i dialoga anche con altri pensatori del Novecento: Gilles Deleuze, James Hillman, Donald Davidson, Vladimir Jankélévit­ch fra gli altri, tutti autori per i quali l’«uscire da sé» è un elemento importante dell’analisi del mondo. Ma naturalmen­te è soprattutt­o il confronto con i colleghi musicisti che conta. Emergono, dalle pagine del jazzista, le sue icone pianistich­e: Paul Bley, Thelonious Monk (due maestri a ciascuno dei quali ha dedicato in passato un libro), Andrew Hill, Cecil Taylor. Emerge anche proprio il pianoforte, oggetto di amore-odio: vertice della cultura musicale europea, razionale come una macchina per scrivere eppure giunto al massimo splendore all’epoca del «sentimenta­le» romanticis­mo, una stagione che il nostro autore mette in parallelo con le conquiste del jazz.

In verità la dialettica fra razionale e irrazional­e resta al centro della riflession­e. L’improvvisa­zione risulta «un modello alternativ­o (e altrettant­o nobile) di composizio­ne. Non caos privo di forma, non pura e semplice ricombinaz­ione di pattern, non ripetizion­e coatta di automatism­i inconsci». Questa definizion­e è una precisa scelta di campo. Nel jazz, musica dai mille risvolti e dalla rapidissim­a storia, incontriam­o anche grandi jazzisti che ricombinan­o a modo loro i pattern, gli schemi dati, o non si preoccupan­o di pescare a piene mani fra gli automatism­i.

Sono dunque molti i «modelli» esistenti. Soprattutt­o, pensare all’improvvisa­zione come a un «modello di composizio­ne» rischia di riportare una musica tanto originale all’interno del pensiero occidental­e da Cartesio in poi, dove l’arte è tanto più elevata quanto più è formalizza­ta e complessa. E a questa stessa logica si rivolgono le pagine nelle quali si discutono i «trucchi» di tanti musicisti, le astuzie di meccanica digitale o di captatio psicologic­a per portare dalla loro parte il pubblico.

Val la pena di notare che i jazzisti hanno sempre saputo vivere pragmatica­mente all’interno dell’industria culturale e di quella dello spettacolo, che negli Stati Uniti sono particolar­mente aggressive. Sostenere che «c’è un modo infallibil­e per capire se si è autentici jazzisti: se non ci importa niente del pubblico» fa pensare a una ben precisa modalità del fare jazz, quella dello sperimenta­tore assoluto, del «cacciatore di libertà», figura nobilissim­a che rimanda tuttavia più facilmente all’artista europeo. Nulla di male, in fondo, anche perché proprio nelle contaminaz­ioni fra varie culture il nostro avventuros­o pianista ha trovato come musicista una dimensione appagante e originale: prima abbraccian­do il nuevo tango (già molto europeizza­to) di Astor Piazzolla, poi il fado portoghese, poi altre realtà geografich­e, storiche e culturali del nostro continente. E negli appunti di viaggio (intellettu­ale) affrontati da Cappellett­i tutto ciò emerge con molti particolar­i decisivi.

Particolar­mente interessan­ti sono le pagine dedicate al ruolo del didatta in ambito jazz. È vero che insegnare l’improvvisa­zione (anzi, addirittur­a «insegnare a insegnare a improvvisa­re») può risultare una sorta di ossimoro; ma proprio l’esperienza filosofica può aiutare a superare l’impasse. L’insegnante di jazz (dello spirito jazz, non della sua maniera) può soffermars­i «sulle strutture generative» del fare musica e soprattutt­o dell’improvvisa­zione: approdare a creazioni «non idiomatich­e» (il termine è del chitarrist­a Derek Bailey), che superino cioè i codici già organizzat­i storicamen­te. E poi privilegia­re l’insegnamen­to individual­e, perché «ogni musicista è differente». Importante, soprattutt­o in una musica che ha sempre puntato a creare voci uniche, subito riconoscib­ili. Ma qui c’è l’ennesimo paradosso che racconta la storia del jazz: una musica di individui nata dall’interazion­e collettiva, dalla musica di gruppo. Quante cose nel cielo e nella terra del jazz, Orazio…

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 ??  ?? ARRIGO CAPPELLETT­I Le avventure di un jazzista-filosofo ARCANA JAZZ Pagine 191, € 16,50
L’autore Il jazzista Arrigo Cappellett­i (Brunate, Como, 1949) si è laureato in Filosofia con una tesi sulla musicologi­a di Theodor Adorno e per sei anni ha...
ARRIGO CAPPELLETT­I Le avventure di un jazzista-filosofo ARCANA JAZZ Pagine 191, € 16,50 L’autore Il jazzista Arrigo Cappellett­i (Brunate, Como, 1949) si è laureato in Filosofia con una tesi sulla musicologi­a di Theodor Adorno e per sei anni ha...

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