Corriere della Sera - La Lettura
Il ballo di Ziya Azazi ovvero la trance dei dervisci ma senza i dervisci
Il coreografo e performer turco porterà a Cremona il suo spettacolo ispirato al magistero dei mistici sufi
La danza del derviscio è una vertigine antioraria. Il corpo ruota su di sé in senso opposto a quello delle lancette dell’orologio, gira in tondo (da ovest a est) specchiandosi nel moto dei pianeti e delle sfere celesti, s’orienta come i pellegrini intorno alla Mecca. Busto e gambe sono l’asse radicato a terra per ascendere al cielo, le braccia a croce salgono progressivamente fungendo da bilanciere dell’ipnotico avvitamento. Percorso che, nella tradizione, è devozione e rivelazione insieme. Non è così per Ziya Azazi, derviscio sui
generis. Non solo perché ha una laurea in ingegneria in tasca, non solo perché affida le parole di quest’intervista a dieci tracce vocali incise su Gmail. Nato ad Antiochia nel 1969 e cresciuto a Istanbul, Azazi opera una sintesi tra il mondo della danza contemporanea e quello della danza sufi, con tutte le deroghe e licenze possibili per un artista che ha elaborato un linguaggio ibrido, tra Oriente e Occidente, dopo aver stretto collaborazioni con Jan Fabre, Marcia Haydée, Ismael Ivo, Yoshi Oida, e dopo essersi esibito alla National Library di Londra e al Museo Nazionale di Singapore, incrociando la danza sufi al Bolero di Ravel/Béjart e alla jota aragonese nello spettacolo Cardìa di Miguel Ángel Berna, al Teatro Principal di Saragozza, Spagna, appena tre settimane fa. Come se il folclore fosse un’unica, ramificata famiglia.
Durante gli anni d’università Azazi è finito per caso nel vortice delle danze esta- tiche e del samâ’ (letteralmente «ascolto» di musica, la riunione mistica con balli e suoni osteggiata dall’ortodossia) cantati nel 1200 dal poeta Gialãl ad-Dîn Rûmî, fondatore della confraternita sufi dei dervisci danzanti. «Nel ’99 — racconta Ziya, scandendo le parole da un’Istanbul innevata — ho scoperto per caso la danza sufi. In quel periodo, da danzatore contemporaneo, ero interessato al minimalismo, a forme di danza basate sulla ripetizione e sulla progressione. Quando fui invitato a presentare un breve “solo” per l’inaugurazione di un nuovo teatro, la mia decisione fu di semplificare il mio vocabolario di danza lavorando appunto, con semplici movimenti, su progressioni e ripetizioni. Così cominciai a girare e finii per ruotare vorticosamente. All’inizio fu solo un nuovo modo di danzare, ma nel corso degli anni quest’approccio mi ha riportato indietro alle mie radici attraverso lo studio della danza sufi e del modo in cui è praticata nel mondo».
Se per il danzatore e coreografo turco tale scoperta ha sortito un effetto simile a quello «dell’acciarino che fa sprizzare le scintille nascoste in seno alla pietra», come accadde a Rûmî quando si imbatté nel maestro spirituale Shams-i Tabrîz, non è stata però una rivelazione di fede in senso stretto. «Non sono mai stato religioso. Per me le religioni — confessa Ziya — sono programmi che possono aiutare l’uomo a strutturare le proprie abitudini in pensiero esistenziale, meditazione e spirito, per offrire una prospettiva alla vita terrena. Ma per me tali questioni sono vecchie. Abbiamo bisogno di avvicinare modi nuovi di spiritualità per dare opportunità all’intuizione, senza però dimenticare che abbiamo anche necessità di sapere. Conoscenza e intuizione dovrebbero essere combinate in un nuovo modo e questo è il percorso che sto tentando di sviluppare». E per prendere ulteriormente le distanze dalla confraternita dei dervisci puntualizza: «Non sono mai stato legato a loro in modo serio. Mi sono solo limitato a esibirmi talvolta con alcuni, sullo stesso palcoscenico in qualche festival».
Tale distanza si misura anche nella forma più esteriore degli spettacoli di Azazi che sarà in scena al Teatro Ponchielli di Cremona il 16 febbraio, unica data italiana, nel suo Dervish, un one man show in cui si saldano due coreografie, Azab e
Dervish in progress. Infatti, mentre il derviscio della tradizione indossa, con casto rigore monastico, uno zucchetto in testa, una camicia morbida e una gonna ampia e lunga fino ai piedi, che nel movimento rotatorio si gonfia e si alza come una candida corolla, Ziya non teme di mostrare al pubblico il capo e il torso nudi, sfoggiando una serie di gonne che, nello sviluppo della coreografia, sfila dalla testa a una a una. Nel movimento si innesta la libertà del linguaggio contemporaneo e l’individualità dello stile del danzatore che tende a una sofisticata forma astratta.
«Le gonne che indosso e tolgo — spiega — sono elementi metaforici: rappresentano le diverse apparenze umane. In
Dervish in progress alludono ai vari strati della personalità in cui si addensano l’appartenenza a religioni, geografie, sessi, che ci costringono. In noi ci sono così tanti strati accumulati che chiedono di essere tolti. E il mio scopo è presentare quanto sia bello liberarsi delle apparenze». In un altro spettacolo, Ember (brace), le gonne diventano cerchi di fuoco: «In Ember la gonna di fuoco rappresenta la velocità della vita contemporanea che ci spreme e limita, giorno dopo giorno sempre di più, bruciando la nostra realtà e il nostro spirito».
La trance, scopo ultimo della pratica religiosa del sufismo, è per Ziya un obiettivo perseguito, ma in chiave esperienziale: «Nell’eseguire la rotazione del derviscio — afferma — è molto importante non giudicare e non aspettarsi nulla, tali atteggiamenti devono essere costantemente combattuti. Il punto fondamentale è invece isolarsi. Più ci si isola, più è possibile raggiungere uno stato profondo di trance. È ciò che faccio quando danzo, pur seguendo alcune strutture coreografiche. La qualità della mia danza, del mio essere, nella mia mente e nel mio spirito in quel preciso momento, si eleva quanto più profondamente mi immergo nella trance. Non è un luogo che raggiungiamo facilmente aprendo una porta. La trance è una vita qui e ora, ma senza fine, con una diversa densità e velocità, qualità e colore. La trance è diversa ogni volta, un’esperienza che muta nella sostanza e nella lunghezza del tempo. Quando mi immergo in questa dimensione, ogni volta tento di non giudicarmi e di non aspettare qualcosa da me. Mi astraggo e basta. Questo è lo scopo della mia performance: mostrare al pubblico quanto è bello offrire la possibilità al subconscio di affiorare piuttosto che limitarsi a vivere nella consapevolezza della nostra tridimensionalità civilizzata. Dovremmo muovere ad altre dimensioni nell’universo e allungare lo sguardo per vedere la realtà con occhi nuovi».
L’inizio «Mi sono imbattuto in questo genere quando da danzatore contemporaneo lavoravo su ripetizioni e progressioni» La fede «Non sono religioso, per me le religioni sono programmi che possono aiutare l’uomo e non sono mai stato legato alla confraternita»