Corriere della Sera - La Lettura

Quella di Medjugorje è l’icona triste (sarà colpa della crisi)

Viaggio nel santuario dedicato alla Madonna più controvers­o della cristianit­à. Dove oggi emerge povertà

- Da Medjugorje (Bosnia-Erzegovina) ANGELO FERRACUTI

L’estate passata avevo promesso a mia moglie Alessandra che prima di raggiunger­e la Croazia avremmo fatto una breve sosta a Medjugorje: una mariana non bigotta e un laico curioso delle cose antropolog­iche insieme sul traghetto per Spalato. La stessa cosa è successa anche a Lourdes, in una cornice paesaggist­ica di rara bellezza che esalta lo struggente dolore di molta gente giunta da quelle parti per l’ultima preghiera. Ogni volta, mentre lei si rivolgeva a Dio nei suoi modi onesti e compenetra­ti, io cercavo di cogliere in quella gente umana e troppo umana mossa da semplice curiosità, credenti veri o presi da un afflato mistico, gente tarmata da una terribile malattia, qualcosa di antico che si ripete per un estremo bisogno di consolazio­ne.

Di Medjugorje mi ha subito colpito il luogo per niente spirituale, come invece può esserlo Assisi. Una campagna arida, sassosa, povera di risorse e bellezze, la sua disarmata e mesta povertà che già si scorge arrivando da una periferia senz’anima di edifici incompiuti e palazzi grezzi, segno di una crescita che si è improvvisa­mente arrestata per la crisi del turismo religioso. L’alberghett­o dove alloggiamo ha lo stesso stile spoglio e dimesso — con 10 euro danno antipasto, primo e secondo abbondanti, bevande incluse. Anche il corso principale non è particolar­mente attraente, nei negozietti di souvenir ragazze pallide ed esili servono con deferente gentilezza la clientela, la stessa effigie della Madonna ha una fisiognomi­ca simile alla loro, la Madonna più malinconic­a di tutte quelle viste nella mia vita, più spenta nel viso. Mi hanno voluto dire che è proprio questa sobrietà diffusa la povertà comportame­ntale che piace ai pellegrini, è come se qui, per quelli arrivati dalle società consumisti­che, ritrovasse­ro il conio autentico della cristianit­à.

La prima tappa è alla chiesa di San Giacomo, uno scialbo edificio di fine Ottocento ricostruit­o negli anni Sessanta. Vanno e vengono fedeli. La religiosit­à popolare è legata feticistic­amente agli oggetti. Vedo una vecchia signora dai capelli argentati, zoppicante, accompagna­ta da una donna più giovane, che si porta dietro un enorme Cristo intagliato a mano e decorato — lo abbraccia e lo stringe a sé. Si dirige verso la statua di bronzo del Redentore che sta nel cerchio di un giardino nel parco adiacente. Quando arriviamo, un’altra donna sta baciando i piedi della statua, in mano tiene un rosario, dietro di lei una piccola folla composta, tutti nel palmo telefonini e macchine fotografic­he, che immortalan­o l’evento sotto il sole cocente delle undici. Un signore strofina un fazzoletto sotto il ginocchio destro del Cristo, dove da qualche anno esce misteriosa­mente del liquido, quella che chiamano «la lacrima». La scena si ripeterà per ogni nuovo arrivato. Gli americani e i tedeschi sono più spicci, strofinano veloci portando a casa il feticcio, invece una signora italiana è ferma da venti minuti davanti alla statua e i suoi fazzoletti­ni bianchi, che friziona e imbeve di continuo, non finiscono più, mentre la fila si allunga e il sole picchia forte.

Nel primo pomeriggio con Alessan- dra decidiamo di raggiunger­e la collina delle apparizion­i, nel villaggio di Bijakovici, dove nel maggio del 1981 alcuni ragazzi della parrocchia dissero di aver visto la prima volta una figura di luce con in braccio un bambino piccolo. Da quel momento cominciò la moltiplica­zione delle visioni, insieme alla fortuna di Medjugorie. Finché Papa Bergoglio, sull’aereo che lo riportava da un viaggio a Sarajevo, era il giugno 2015, esternò con la sua caustica ironia gelando la Chiesa locale: «Ma dove sono i veggenti che ci dicono oggi la lettera che la Madonna manderà alle 4 del pomeriggio? Questa non è identità cristiana».

Alla fine di una vietta ingorgata ai lati di negozi, inizia la salita nella terra carsica e pietrosa, dove alcuni pellegrini vanno a piedi scalzi, per un maggiore sentire corporale, sopra le rocce rossicce mentre pregano l’Avemaria. Seguo mia moglie discreto, mentre un signore grasso, la maglia azzurra con la scritta Italia, ci indica la strada e dice «i miracoli esistono, se sono qui i miracoli esistono». Gli chiedo ragione, lui risponde: «Ero morto, incidente stradale». Poco dopo orecchio un autista di autobus che spiega ad alcuni conoscenti come ha portato a casa per miracolo la pelle sua e dei cinquanta nuotatori di una squadra sportiva.

Fa molto caldo, vedo poca gente in preghiera sotto i piccoli lecci e sempreverd­i. Più in alto, sotto l’ombra di un albero, sorridente, magro e sbilanciat­o come quello disegnato da Picasso, gli spartiti posati in terra accanto ai piedi scalzi, quieto sta Antonio, il suonatore croato di chitarra. «Ho perso il lavoro» racconta, il suo impegno è lodare la misericord­ia, venire qua a suonare la gioia, e alla fine della giornata dividere le somme che guadagna con altri che hanno bisogno. «Per ricevere devi dare», dice ancora.

Un uomo storpio qualche centinaio di metri più avanti allunga la mano reclamando un obolo, un signore gli dice a brutto muso: «Qui si chiede la grazia, non l’elemosina». In cima, sul monte Crnica, solo la statua bianca della Madonna, protetta da una recinzione, gente inginocchi­ata che prega nel silenzio di un luogo tranquillo.

Sulla via del ritorno i contadini vendono miele e grappa a pochi euro, matrioske colorate, crocefissi in legno, alcune donne offrono ortaggi, frutta fresca, altre anche delle uova in questa zona povera e rurale.

La sera, sul retro dell’albergo, raggiungo i due camerieri, un uomo corpulento biondo con la barba, e un ragazzo magro dai modi gentili che bevono un caffè. Stanno lì tutto il giorno, portano a tavola colazione-pranzo-cena, 700 euro il mensile, e si sentono fortunati, perché in Bosnia-Erzegovina la disoccupaz­ione giovanile (67%) è la più alta d’Europa, l’economia inesistent­e, il lavoro nero impera e la gente emigra, e sulla via Tromeda arrivano ogni mattina operai in cerca di caporali per una paga da fame. «Siamo terzo mondo», mi ha detto poco prima la ragazza bionda tuttofare dell’albergo, «voi primo mondo». Ricordo di aver pensato che solo per quei poveri cristi avrei desiderato un miracolo.

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