Corriere della Sera - La Lettura
Agnotologia Tre regole contro l’ignoranza
Nel 1995 Robert Proctor, docente a Stanford, introdusse un termine per descrivere un fenomeno che sarebbe diventato, grazie a internet, incontrollabile. I filosofi si sono sempre occupati della conoscenza, lui scelse di indagare e studiare la nonconoscenz
Immersi costantemente nelle informazioni. Sempre connessi, con mille canali tv a disposizione, i siti, i giornali, i social network. Eppure «stiamo vivendo nell’età dell’oro dell’ignoranza», sostiene Robert Proctor, professore di Storia delle scienze all’Università di Stanford, in California. Proctor è nato in Texas 62 anni fa: ha studiato prima biologia e poi si è specializzato nella storia delle scienze. Da almeno vent’anni studia l’ignoranza. Nel 1995 ha coniato il termine agnotology, fondendo la parola greca agnosis, la «non conoscenza», con ontologia, cioè lo studio della natura dell’essere. Copre un vasto campo di ricerca, dalla tecnologia alla medicina, con uno spirito militante. Nel 1999 si presentò in tribunale per testimoniare contro l’industria del tabacco. In que- sti mesi sta lavorando a un libro sull’evoluzione come primo esempio di «storicizzazione» della vita: Darwin in the History of Life.
Lei sostiene che la nostra epoca sia «minacciata dal buio», dall’agnotology…
«Sì. Ho coniato questa parola un paio di decenni fa per designare la scienza dell’ignoranza, la storia dell’ignoranza, la politica dell’ignoranza e specialmente i sistemi di produzione dell’ignoranza. I filosofi si sono sempre occupati della conoscenza, come Galileo, Newton o Platone. Ma quello che abbiamo trascurato troppo a lungo è l’ignoranza, una realtà che ha una sua storia, una sua geografia. Noi siamo circondati dall’ignoranza, che viene deliberatamente prodotta da potenti forze per lasciarci nel buio».
Quali sono queste forze?
«Ci sono diversi esempi. Il più recente riguarda le fake news, le false notizie; oppure le inserzioni pubblicitarie che diffondono informazioni sbagliate per vendere i prodotti. Ma la mia ricerca si concentra soprattutto sulla vasta influenza che hanno avuto i gruppi economici organizzati, come big tobacco, cioè i produttori di sigarette, o big oil, l’industria del petrolio, o ancora come big soda, le grandi imprese che vendono bibite con dannosi quantitativi di zucchero. Tutti questi soggetti diffondono informazioni fuorvianti nella società. Fanno credere che il fumo non provochi il cancro, che la pro-
duzione di idrocarburi non sia poi così inquinante e che le bibite iper zuccherate non siano una delle cause dell’obesità».
Sono lobby che difendono interessi economici. Pensa che le società complesse come le nostre non siano in grado di filtrare quelle informazioni?
«Intanto queste lobby sono in grado di condizionare le leggi, i regolamenti. A Washington ce ne sono cinquemila. Tutte le industrie inquinanti, per esempio, sono molto attive nella diffusione di dati falsi, di rassicuranti notizie sul cambiamento climatico e così via. Sono queste le fonti che alimentano l’ignoranza. Alcune sono anche in grado plasmare la politica. Negli Stati Uniti il movimento conservatore del Tea Party è nato grazie ai fondi di big tobacco e di big oil. Il Tea Party ha condotto campagne molto intense contro il peso della burocrazia che affossa lo spirito d’impresa. In realtà questa formazione ha preso soprattutto di mira le norme restrittive su sigarette e petrolio».
La campagna elettorale del 2016 mostra un ulteriore sviluppo. Anche lei accennava alle fake news fabbricate ad arte… «Beh, direi che queste elezioni sono state vinte dalle
fake news. Trump ha condotto attacchi diretti, personali contro gli avversari repubblicani e poi Hillary Clinton. Non è una cosa nuova nelle competizioni, il fenomeno nuovo è la facilità impressionante con cui si diffondono sui social network le fake news ».
Oltre alle falsificazioni, nel 2016 abbiamo visto molte omissioni. Lo staff di Hillary Clinton ha nascosto le informazioni sulla polmonite della candidata o, cosa più inquietante, non ha mai fatto chiarezza sui rapporti ambigui della Fondazione Clinton con Paesi come l’Arabia Saudita…
«È vero. Questo è un argomento giusto. Le false notizie si mascherano in modo sofisticato e per noi diventa sempre più difficile scoprirle. Oppure, a volte, sono omissioni plateali, deliberate. Trump non ha mai mostrato la sua dichiarazione dei redditi e quindi noi ancora non sappiamo quali siano le sue relazioni d’affari».
Quali sono le contromisure? Le società di internet, da Facebook a Google, possono fare di più per contrastare la diffusione dell’ignoranza?
«Si è aperta la discussione: Facebook, Microsoft, Google non possono essere semplicemente un canale neutro, la porta d’accesso aperta a qualunque tipo di informazione. Si sta lavorando per eliminare le falsità che riguardano le discriminazioni razziali, di genere, di orientamento sessuale». Il confine tra controllo e censura qui si fa sottile.
«Vero. Ma è necessario fare i conti con quel confine se vogliamo davvero combattere l’ignoranza. Nello stesso web, per altro, operano siti che sono fabbriche di fake news che hanno un evidente scopo commerciale. Questo è un settore di cui nessuna autorità federale si occu-
pa e invece qualche istituzione dovrebbe intervenire, perché sono attività che possono danneggiare i cittadini-consumatori». Veniamo al ruolo dei media. Che cosa dovrebbero fare tv, giornali e siti di informazione?
«In generale hanno lo stesso problema dei social network. Siamo abituati a pensare che il criterio di neutralità sia garanzia di una corretta informazione. Non sempre è così. Se sto scrivendo un articolo o facendo un servizio televisivo sul climate change per esempio, non posso mettere sullo stesso piano i risultati scientifici che mostrano quanto siano dannose certe produzioni industriali e le dichiarazioni di un rappresentante di big
oil o di un politico finanziato da loro che semplicemente li nega. Questo vale per tantissime cose. I giornalisti, i media devono spiegare con chiarezza quali sono i fatti accertati, inconfutabili. Qui non funziona la formula chiamata del balance routine, l’approccio neutrale, imparziale: il signor x sostiene che il fumo provoca il cancro, mentre il signor y replica che in realtà i danni ai polmoni sono marginali. Non ho fatto un esempio a caso. Per anni l’industria del tabacco ha manipolato la verità, producendo statistiche artefatte e pagando esperti per difendere le loro tesi. È una questione ancora aperta, talvolta più sottile, più difficile da percepire. Quando il “New York Times” scrive che gli ambientalisti denunciano i danni del climate change, applica in modo sbagliato il modello della balance routine. Perché il cambiamento climatico non è una questione di schieramenti: è un fatto provato da studi ed evidenze scientifiche. Questo tipo di errore può avere effetti catastrofici. I media, invece, dovrebbero sfidare in maniera più aggressiva, più puntuale i produttori di ignoranza. Tuttavia ci tengo a dire che i media sono solo una parte del puzzle».
Quali sono le altre componenti?
«Ci siamo noi. Tutti noi come singoli individui, come lettori dei giornali, spettatori o navigatori su internet. Nelle nostre conversazioni e nel nostro modo di ragionare abbiamo smarrito tre regole semplici che, invece, è urgente recuperare. Primo: domandarsi sempre quale sia la fonte di certe affermazioni. Secondo: chiedersi qual è la reputazione di questa fonte. Terzo e più importante di tutti: riflettere su chi trae vantaggio da quella stessa affermazione». Lei ha anche condotto delle battaglie in tribunale contro l’industria del tabacco…
«Sì, perché ci sono diversi strumenti a disposizione. La causa in tribunale contro la pubblicità ingannevole è uno di questi. Oppure le battaglie per chiedere l’introduzione di regole più rigide. Da ultimo vedo università che rifiutano finanziamenti da soggetti che considerano poco trasparenti. Possiamo provare a uscire da questa Golden Age dell’ignoranza».