Corriere della Sera - La Lettura
La sindrome Cornwell fa male a Grisham
Non è questo il miglior Grisham della nostra vita. Peccato: non sbagliava un romanzo dal 2009 (media dell’otto e mezzo). La storia di Lacy, avvocata e single, e del suo collega Hugo, nero e sposatissimo, padre di numerosa prole, che lavorano per la Cdg (l’agenzia statale che indaga sui giudici disonesti) e si imbattono nel più colossale caso di corruzione giudiziaria mai visto, non decolla mai. Forse perché c’è un eccesso di spiegazioni e di conversazioni (in certi momenti sembra di trovarsi in un libro della Cornwell più che di Grisham). Forse perché il caso in oggetto non accende il cuore e i personaggi sembrano robot. Né aiuta l’ambientazione nella deprimente Florida non turistica. Il fatto strano è che di questo romanzo Grisham ha scritto un prequel (il racconto Witness to a trial), un dramma processuale su un innocente condannato a morte che mi dicono molto riuscito. Allora chiedo: ma non si poteva fare del prequel il primo capitolo de L’informatore? Sono sicuro che avrebbe migliorato le cose. Senza tribunale, Grisham è come un pugile che boxa con un braccio legato dietro la schiena. L’Accusa non ha molto altro da dire e si risiede al banco. Lo spazio che resta lo dedico alla classifica dei legal thriller più belli di sempre. Al primo posto c’è Il processo di Kafka ex aequo con Il verdetto di Barry Reed (da cui il gran film di Sidney Lumet, sceneggiato da David Mamet e con un meravigliosamente spiegazzato Paul Newman). Molte delle posizioni seguenti le occupa Grisham (in ordine sparso: Il socio, Il rapporto Pelican, L’ultimo giurato, L’uomo della pioggia, L’avvocato canaglia, ecc.). Approfitto dell’occasione per invitarvi a leggere La borsa di Miss Flite di Bruno Cavallone (Adelphi), che è quanto di più delizioso si sia scritto sulla questione rito giudiziario e letteratura. Per il voto all’Informatore propongo a Grisham di patteggiare: se accetta, se la cava con un cinque e mezzo (con la condizionale).