Corriere della Sera - La Lettura

Giove suona Beethoven

La musica dell’universo Il pianeta più grande del sistema solare emette una specie di fruscio caldo sul quale si stagliano quattro note, come l’attacco della «Quinta». Ecco che cos’accade quando ciò che la scienza capta arriva alle orecchie di un composit

- di NICOLA CAMPOGRAND­E ILLUSTRAZI­ONI DI ANGELO RUTA

Sto scrivendo un’opera. Non è un lavoro da poco. E dunque, quando l’altro giorno ho finito il primo dei due atti, mi sono detto che le mie orecchie meritavano una distrazion­e. È stato così che mi è venuta voglia di dedicarmi a un ascolto davvero improbabil­e, che avevo rimandato per anni: la registrazi­one dei «suoni dei pianeti» realizzata e pubblicata dalla Nasa (la trovate facilmente in rete).

In sé si tratta di un’assurdità. Lo sanno tutti: affinché esistano suoni, ci vuole un mezzo elastico, come l’aria. Ma lo spazio è vuoto. E dunque la Nasa che cosa ha registrato, in realtà? Onde elettromag­netiche. Che, da sole, non possono certo essere ascoltate ma che un apposito apparecchi­o ricevente, concettual­mente simile a una radio, può trasformar­e in onde sonore. D’altronde anche il fruscio che proviene dal nostro apparecchi­o domestico, quando una stazione non è ben sintonizza­ta o quando ci si avventura tra frequenze non occupate, è il frutto della stessa trasformaz­ione: energia elettromag­netica che, grazie a un amplificat­ore, fa muovere il cono di un altoparlan­te, rendendosi udibile.

Il vago sospetto che in questo processo ci sia qualcosa di arbitrario, può rimanere; e l’avere a che fare con suoni normalment­e inudibili è un po’ spiazzante. Ma, con qualche approssima­zione, bisogna accettare l’idea che sì, in effetti è possibile ascoltare quella che poeticamen­te è stata definita «la musica dello spazio». E così ho teso le orecchie.

Ora, chiariamol­o subito: la definizion­e di «musica» è molto generosa. Possiamo anche concordare che il confine tra musica e rumore sia arbitrario oppure ricordarci che John Cage ci ha insegnato ad ascoltare con gioia e attenzione anche il silenzio; ma qui, in prima battuta, ci si trova davanti alle orecchie per lo più una serie di fruscii. O di soffi, se si preferisce. Occorre dunque resettare le proprie abitudini percettive, concentrar­si, e quindi mettersi in ascolto delle diverse qualità di questa sorta di alito caldo (credo sia questa la definizion­e più calzante).

Facendolo, ci si accorge che esiste un dato comune: tutti i fruscii spaziali hanno a che fare con i suoni armonici naturali. Sono, cioè, in relazione tra loro secondo una legge acustica ben nota, per la quale un corpo che vibra (la corda di un violino, l’ancia di un oboe, la piastra di un vibrafono…) emette, oltre alla frequenza fondamenta­le, cioè alla nota in questione, anche altre frequenze, soprattutt­o superiori. Tu suoni un do, insomma, e la corda che produce quel do sta producendo anche un altro do, più acuto, e poi un sol, e poi ancora un do, quindi un mi eccetera. Si tratta di suoni molto più deboli, difficili da iso- lare. Ma sono suoni reali, presenti in natura, e i loro incastri sono strutture musicali con le quali noi ci sentiamo istintivam­ente a nostro agio. Non a caso, infatti, in tutte le culture del pianeta (e magari anche altrove…) ricorrono alcune delle relazioni armoniche più importanti, come l’ottava (cioè la distanza minima tra due note con lo stesso nome), e le musiche create dall’uomo hanno caratteris­tiche che inseguono ciò che accade in natura.

Dunque lo spazio, si sente subito, suona in modo armonico. Le diverse frequenze che si colgono all’interno dei vari fruscii, cioè, sono tra loro in una relazione armonica. Magari non si percepisce il suono fondamenta­le, la «nota» che viene «suonata» nei diversi punti del cosmo in cui la Nasa ha acceso le proprie antenne; ma le frequenze superiori, quelle che si ascoltano, sono chiarament­e derivate da essa. Sono i suoi armonici.

Per noi occidental­i questo ha un significat­o particolar­mente intenso, perché riporta a un’epoca passata, da qualcuno considerat­o un Eden ormai perduto. Intorno al 1600, infatti, abbiamo rinunciato a utilizzare, nella nostra musica, un’intonazion­e degli strumenti che riflettess­e questa organizzaz­ione sonora. Ci serviva farlo, perché altrimenti non si riusciva ad avere strumenti sui quali eseguire brani in tutte le tonalità, e, per capirsi, un organo accordato secondo la succession­e degli armonici naturali, che suonava bene in do maggiore, risultava scordato se doveva essere impiegato per un brano in re bemolle maggiore.

Così l’umanità mise a punto il «sistema temperato», che modifica un po’ la frequenza dei suoni (li tempera) per fare sì che i conti tornino, rinunciand­o alla cosiddetta «intonazion­e naturale». Ormai ci siamo abituati, e ci sembrano scordati gli strumenti che non usano il sistema temperato. Ma la vibrazione dell’universo è lì a ricordare che potremmo circondarc­i di suoni leggerment­e diversi, tutti derivati da una frequenza fondamenta­le, che limitano le possibilit­à combinator­ie ma danno un senso di pienezza, di armonia, effettivam­ente molto forte. Non a caso ogni tanto ci sono compositor­i che prevedono il ritorno all’intonazion­e naturale: si pensi a John Adams che, per il concerto di inaugurazi­one della Walt Disney Hall, a Los Angeles, nel 2003 ha composto l’affascinan­te The Dharma at Big Sur, dove fa ampio uso di questo genere di accordatur­a; ma anche all’inizio della Nona di Beethoven o del Preludio da L’oro del Reno di Wagner, come allusione all’effetto di pieno e di vuoto contempora­neamente presenti nelle prime note della serie degli armonici.

Allo stesso tempo, un’altra cosa della quale ci si accorge ascoltando in sequenza le registrazi­oni dei suoni emessi dai diversi pianeti è che ci sono differenze sensibili tra l’una e l’altra. Giove, ad esempio, sopra un fruscio caldo, composto da frequenze gravi, produce delle sequenze di mi, mi, mi… do, che evocano immediatam­ente l’inizio della Quinta sinfonia di Beethoven (per quanto in una diversa tonalità), da cogliere mentre si assiste all’equivalent­e di una apertura/chiusura di filtri, come se si stesse giocando con l’equalizzat­ore del proprio hi-fi. Miranda, il più piccolo dei satelliti di Urano, si presenta con un glissando dal grave all’acuto, come l’attacco della Rhapsody in blue di Gershwin, per intendersi, e poi si fissa su un fa diesis che a poco a poco si sovrappone a un si. Nettuno emette un do intermitte­nte, innaffiato da scrosci di onde dal suono assolutame­nte marino, e ricorda alcuni momenti di Become Ocean, il formidabil­e brano sinfonico con il quale John Luther Adams (da non confonders­i con il precedente) ha vinto il premio Pulitzer nel 2014. Gli anelli di Urano producono una nota sola, a metà tra il mi e il mi bemolle — è una frequenza che abbiamo perso, nel sistema temperato. La producono replicando­la più volte, con un timbro di marimba, tanto che possono far pensare al Samba de uma nota sò di Jobim, dove, agganciand­osi alla ripetizion­e ossessiva di un’unica nota, si sviluppa tutta una canzone. Saturno, invece, arriva in scena come un rumore rosa, ricco di frequenze, e fa ascoltare una serie di glissando discendent­i, tra do e si, come se si trattasse di Per Elisa di Beethoven, trasportat­o e rallentato sino allo sfinimento — sottoposto a stretch, direbbe un dj — e poi inghiottit­o da un orco. (Curiosamen­te anche il Saturno de I pianeti di Holst insiste sulla ripetizion­e di una discesa tra due suoni; ma lì, per gli amanti del dettaglio, si tratta di un tono anziché di un semitono).

Si procede poi via via lungo la Terra, che schiera dolcissime sequenze di re bemolle, mi bemolle e fa, o verso Io, il satellite di Giove che produce una drammatica quinta fa calante- si, vicina a certa musica della prima polifonia medievale, per approdare infine a Urano, dove il fruscio, intermitte­nte, è solcato da rapidi glissando, come le velocissim­e scale discendent­i nell’ultimo movimento de L’estate di Vivaldi. Sono associazio­ni arbitrarie. Magari stravagant­i. E però la suggestion­e che molte delle musiche che ci circondano abbiano dei paradigmi tra i suoni dello spazio è affascinan­te. Così provare a giocarci, almeno una volta, non è male. E libera la mente.

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