Corriere della Sera - La Lettura
Giove suona Beethoven
La musica dell’universo Il pianeta più grande del sistema solare emette una specie di fruscio caldo sul quale si stagliano quattro note, come l’attacco della «Quinta». Ecco che cos’accade quando ciò che la scienza capta arriva alle orecchie di un composit
Sto scrivendo un’opera. Non è un lavoro da poco. E dunque, quando l’altro giorno ho finito il primo dei due atti, mi sono detto che le mie orecchie meritavano una distrazione. È stato così che mi è venuta voglia di dedicarmi a un ascolto davvero improbabile, che avevo rimandato per anni: la registrazione dei «suoni dei pianeti» realizzata e pubblicata dalla Nasa (la trovate facilmente in rete).
In sé si tratta di un’assurdità. Lo sanno tutti: affinché esistano suoni, ci vuole un mezzo elastico, come l’aria. Ma lo spazio è vuoto. E dunque la Nasa che cosa ha registrato, in realtà? Onde elettromagnetiche. Che, da sole, non possono certo essere ascoltate ma che un apposito apparecchio ricevente, concettualmente simile a una radio, può trasformare in onde sonore. D’altronde anche il fruscio che proviene dal nostro apparecchio domestico, quando una stazione non è ben sintonizzata o quando ci si avventura tra frequenze non occupate, è il frutto della stessa trasformazione: energia elettromagnetica che, grazie a un amplificatore, fa muovere il cono di un altoparlante, rendendosi udibile.
Il vago sospetto che in questo processo ci sia qualcosa di arbitrario, può rimanere; e l’avere a che fare con suoni normalmente inudibili è un po’ spiazzante. Ma, con qualche approssimazione, bisogna accettare l’idea che sì, in effetti è possibile ascoltare quella che poeticamente è stata definita «la musica dello spazio». E così ho teso le orecchie.
Ora, chiariamolo subito: la definizione di «musica» è molto generosa. Possiamo anche concordare che il confine tra musica e rumore sia arbitrario oppure ricordarci che John Cage ci ha insegnato ad ascoltare con gioia e attenzione anche il silenzio; ma qui, in prima battuta, ci si trova davanti alle orecchie per lo più una serie di fruscii. O di soffi, se si preferisce. Occorre dunque resettare le proprie abitudini percettive, concentrarsi, e quindi mettersi in ascolto delle diverse qualità di questa sorta di alito caldo (credo sia questa la definizione più calzante).
Facendolo, ci si accorge che esiste un dato comune: tutti i fruscii spaziali hanno a che fare con i suoni armonici naturali. Sono, cioè, in relazione tra loro secondo una legge acustica ben nota, per la quale un corpo che vibra (la corda di un violino, l’ancia di un oboe, la piastra di un vibrafono…) emette, oltre alla frequenza fondamentale, cioè alla nota in questione, anche altre frequenze, soprattutto superiori. Tu suoni un do, insomma, e la corda che produce quel do sta producendo anche un altro do, più acuto, e poi un sol, e poi ancora un do, quindi un mi eccetera. Si tratta di suoni molto più deboli, difficili da iso- lare. Ma sono suoni reali, presenti in natura, e i loro incastri sono strutture musicali con le quali noi ci sentiamo istintivamente a nostro agio. Non a caso, infatti, in tutte le culture del pianeta (e magari anche altrove…) ricorrono alcune delle relazioni armoniche più importanti, come l’ottava (cioè la distanza minima tra due note con lo stesso nome), e le musiche create dall’uomo hanno caratteristiche che inseguono ciò che accade in natura.
Dunque lo spazio, si sente subito, suona in modo armonico. Le diverse frequenze che si colgono all’interno dei vari fruscii, cioè, sono tra loro in una relazione armonica. Magari non si percepisce il suono fondamentale, la «nota» che viene «suonata» nei diversi punti del cosmo in cui la Nasa ha acceso le proprie antenne; ma le frequenze superiori, quelle che si ascoltano, sono chiaramente derivate da essa. Sono i suoi armonici.
Per noi occidentali questo ha un significato particolarmente intenso, perché riporta a un’epoca passata, da qualcuno considerato un Eden ormai perduto. Intorno al 1600, infatti, abbiamo rinunciato a utilizzare, nella nostra musica, un’intonazione degli strumenti che riflettesse questa organizzazione sonora. Ci serviva farlo, perché altrimenti non si riusciva ad avere strumenti sui quali eseguire brani in tutte le tonalità, e, per capirsi, un organo accordato secondo la successione degli armonici naturali, che suonava bene in do maggiore, risultava scordato se doveva essere impiegato per un brano in re bemolle maggiore.
Così l’umanità mise a punto il «sistema temperato», che modifica un po’ la frequenza dei suoni (li tempera) per fare sì che i conti tornino, rinunciando alla cosiddetta «intonazione naturale». Ormai ci siamo abituati, e ci sembrano scordati gli strumenti che non usano il sistema temperato. Ma la vibrazione dell’universo è lì a ricordare che potremmo circondarci di suoni leggermente diversi, tutti derivati da una frequenza fondamentale, che limitano le possibilità combinatorie ma danno un senso di pienezza, di armonia, effettivamente molto forte. Non a caso ogni tanto ci sono compositori che prevedono il ritorno all’intonazione naturale: si pensi a John Adams che, per il concerto di inaugurazione della Walt Disney Hall, a Los Angeles, nel 2003 ha composto l’affascinante The Dharma at Big Sur, dove fa ampio uso di questo genere di accordatura; ma anche all’inizio della Nona di Beethoven o del Preludio da L’oro del Reno di Wagner, come allusione all’effetto di pieno e di vuoto contemporaneamente presenti nelle prime note della serie degli armonici.
Allo stesso tempo, un’altra cosa della quale ci si accorge ascoltando in sequenza le registrazioni dei suoni emessi dai diversi pianeti è che ci sono differenze sensibili tra l’una e l’altra. Giove, ad esempio, sopra un fruscio caldo, composto da frequenze gravi, produce delle sequenze di mi, mi, mi… do, che evocano immediatamente l’inizio della Quinta sinfonia di Beethoven (per quanto in una diversa tonalità), da cogliere mentre si assiste all’equivalente di una apertura/chiusura di filtri, come se si stesse giocando con l’equalizzatore del proprio hi-fi. Miranda, il più piccolo dei satelliti di Urano, si presenta con un glissando dal grave all’acuto, come l’attacco della Rhapsody in blue di Gershwin, per intendersi, e poi si fissa su un fa diesis che a poco a poco si sovrappone a un si. Nettuno emette un do intermittente, innaffiato da scrosci di onde dal suono assolutamente marino, e ricorda alcuni momenti di Become Ocean, il formidabile brano sinfonico con il quale John Luther Adams (da non confondersi con il precedente) ha vinto il premio Pulitzer nel 2014. Gli anelli di Urano producono una nota sola, a metà tra il mi e il mi bemolle — è una frequenza che abbiamo perso, nel sistema temperato. La producono replicandola più volte, con un timbro di marimba, tanto che possono far pensare al Samba de uma nota sò di Jobim, dove, agganciandosi alla ripetizione ossessiva di un’unica nota, si sviluppa tutta una canzone. Saturno, invece, arriva in scena come un rumore rosa, ricco di frequenze, e fa ascoltare una serie di glissando discendenti, tra do e si, come se si trattasse di Per Elisa di Beethoven, trasportato e rallentato sino allo sfinimento — sottoposto a stretch, direbbe un dj — e poi inghiottito da un orco. (Curiosamente anche il Saturno de I pianeti di Holst insiste sulla ripetizione di una discesa tra due suoni; ma lì, per gli amanti del dettaglio, si tratta di un tono anziché di un semitono).
Si procede poi via via lungo la Terra, che schiera dolcissime sequenze di re bemolle, mi bemolle e fa, o verso Io, il satellite di Giove che produce una drammatica quinta fa calante- si, vicina a certa musica della prima polifonia medievale, per approdare infine a Urano, dove il fruscio, intermittente, è solcato da rapidi glissando, come le velocissime scale discendenti nell’ultimo movimento de L’estate di Vivaldi. Sono associazioni arbitrarie. Magari stravaganti. E però la suggestione che molte delle musiche che ci circondano abbiano dei paradigmi tra i suoni dello spazio è affascinante. Così provare a giocarci, almeno una volta, non è male. E libera la mente.