Corriere della Sera - La Lettura
Laboratorio Val Susa, oltre il No Tav
Antropologia L’aspetto interessante dell’esperienza piemontese non è l’opposizione all’opera ferroviaria ma la rete delle iniziative fiorite sul territorio. Piante officinali, software gratuito, sviluppo senza cemento, spirito comunitario
«La società si impone adesso sotto l’aspetto di una creazione continua e mai compiuta: essa è costantemente in corso di realizzarsi, di costruirsi e di darsi un senso», scriveva Georges Balandier in Società e dissenso (Dedalo, 1977). L’antropologo francese, scomparso lo scorso ottobre all’età di 95 anni, fu un pioniere della sua disciplina nello studio delle grandi megalopoli africane in trasformazione. Balandier non amava la metafora dell’edificio: le società non sono sorrette da strutture permanenti (dal latino structum, «costruito»), assomigliano piuttosto a cantieri caotici in cui si mette costantemente mano alla fabbrica sociale.
In Le società comunicanti (Laterza, 1973), scriveva che esse sono «configurazioni che si fanno e si definiscono continuamente (…) possiamo cogliere solo dei processi generativi operanti in maniera permanente (…) degli esseri umani che si producono, soprattutto come individui sociali, mano a mano che contribuiscono a dar forma alla propria società». La metafora dell’edificio è funzionale a una visione conservatrice e molto ordinata della società; il cantiere, al contrario, permette di sottolineare gli apporti creativi del dissenso, del conflitto, di un certo grado di entropia, osservava Balandier nel libro Il disordine (Dedalo, 1991). Il dissenso in modo particolare, ritagliando spazi di immaginazione alternativi o comunque divergenti dal pensiero dominante, è fonte di possibili trasformazioni creative. Erano altri tempi, certo. Balandier cominciò a studiare l’Africa negli anni Cinquanta, quando erano in corso ribellioni e rivoluzioni anticoloniali e la sua vasta opera si colloca nel quadro di un clima intellettuale affascinato dal sogno di un’altra umanità, di un’Africa libera e indipendente, di un Occidente pluralista, di un altro sviluppo.
Due cantieri, uno reale e uno metaforico sono al centro del libro di Marco Aime Fuori dal tunnel, che ha segnato il ritorno di Meltemi nel panorama editoriale. Il movimento No Tav contro il cantiere dell’alta velocità in Val di Susa fa da sfondo alla narrazione. L’obiettivo di Aime, però, non è tanto quello di ricostruire puntualmente le vicende dell’annosa e ormai cronica questione, né di argomentare le ragioni di chi considera inutile l’opera (punto di vista con cui peraltro l’autore non nega di avere assonanza), ma di dare voci al dissenso. Da antropologo, Aime lavora con interviste a personaggi noti alle cronache, ma anche a valsusini del tutto anonimi; lavora con il metodo dell’osservazione partecipante, con uno sguardo «da vicino», con gli strumenti dell’empatia e dell’ascolto. Se soprattutto la bassa Val di Susa è stata per lungo tempo una periferia torinese più che una valle alpina, la lotta contro la Tav ha posto le basi per la costruzione di una vera «comunità alpina».
Per nascere una comunità ha bisogno di un territorio, di una minaccia esterna (un «utile nemico», come lo definiva Umberto Eco in Costruire il nemico e altri scritti occasionali, Bompiani, 2011), ma anche e soprattutto di simboli e narrazioni condivise. Le voci del dissenso e della resistenza raccolte da Aime negli anni della ricerca narrano che, attorno agli scontri di Venaus (2005) e di La Maddalena (2011), attorno all’opposizione alla stampa e alla politica «di regime» e persino a partire da una condivisione di slogan ironici («I No Tav provocano terremoti saltando tutti insieme», «I No Tav hanno rubato la salma di Mike Bongiorno») si è consolidata un’appartenenza a una comunità di valle. Più che sui No Tav il libro diventa così un viaggio in una inedita comunità, la Val Susa che si fabbrica fuori dal tunnel.
Insegnando antropologia all’Università di Torino in questi anni sono rimasto sorpreso dalla quantità di studenti e studentesse attratti dalla valle e dalle sue esperienze creative, più che dal movimento No Tav in sé. Chi vorrebbe fare una ricerca di tesi sulla rete dei Gruppi di acquisto solidale (Gas); chi vorrebbe studiare la storia degli antichi vini di Chiomonte e dintorni e dei processi di recupero e valorizzazione; chi, dopo gli studi, mi confessa di essersi trasferito in alta valle per gestire un rifugio e avviare un’attività commerciale di piante officinali; chi intende esaminare l’esperienza di Genuino Clandestino, il movimento informale che promuove l’agricoltura biologica e di prossimità, rifiutando però le pastoie burocratiche (e i relativi costi) del «bio» certificato. Un giovane valsusino prepara una tesi sul Ladakh, una remota regione indiana di cultura tibetana, per indagare le logiche di condivisione del cibo e chiedersi se esse possano avere un futuro creativo anche da noi.
Il libro di Aime presenta numerose esperienze del «laboratorio sociale» Val Susa: la cooperativa «Dalla terra nativa» di Venaus, per esempio, ha comprato a prezzi poco più che simbolici appezzamenti di terra abbandonati per far rivivere i terrazzamenti. Sempre a Venaus la giunta ha approvato il piano regolatore denominato «zero metri cubi e quadrati edificabili» per contrastare la speculazione edilizia. L’associazione «Valsusinux» si batte per la diffusione del software e del wi-fi libero e gratuito nella valle. «Etinomia» è un’associazione di imprenditori che promuove uno sviluppo giusto e pulito, oltre che efficiente. Molti comuni della Val Susa aderiscono a «Recosol», la Rete dei comuni solidali che sostiene iniziative di sviluppo sostenibile in varie regioni del mondo.
«Il nostro giocare in piccolo non serve al mondo», suona il verso di una poesia che Nelson Mandela citò nel suo discorso di insediamento (2004). L’esperienza della Val Susa è spesso presentata come un esempio del «locale» che si pone contro il «globale», come una comunità chiusa nelle sue piccole frontiere che si batte contro il treno/mostro, incarnazione del Ggc, il «Grande gigante cattivo» dello sviluppo insostenibile e violento. E tuttavia, «comunità» è necessariamente sinonimo di chiusura? In realtà, lo è solo se rimaniamo nel paradigma dominante del mito dello sviluppo che oppone «centro» e «periferia» e li moltiplica come frattali.
Nelle retoriche del Sì Tav, notavano qualche anno fa Luigi Bobbio ed Egidio Dansero ( The Tav, Umberto Allemandi 2006) risulta molto utilizzata la metafora del «corridoio» (il «corridoio europeo 5» che unirebbe Lisbona a Kiev). In una casa il «corridoio» è uno spazio marginale, di passaggio, in genere poco o nulla arredato. Nella logica centro/periferia le valli alpine non possono che essere «corridoi». Di nuovo: rivendicandosi quali «comunità», queste aree sono destinate a divenire, al meglio, forti di resistenza contro la globalizzazione selvaggia? In realtà, questa la conclusione di Aime, ciò che colpisce della vicenda Val Susa è il fatto che il senso di comunità è andato saldandosi con l’apertura verso esperienze simili e con la costruzione di una rete di territori capaci di proporre uno sviluppo alternativo, sostenibile e concreto.
La vera sfida alla Tav e il punto di svolta del movimento è la costruzione di reti di scambio, solidarietà e commercio capaci di mettere in scacco la logica dello sviluppo a una sola dimensione. Come hanno scritto Marco Revelli e Livio Pepino nel libro Non solo un treno, (Ega, 2012): «No Tav oggi non significa più (solo) opposizione a una linea ferroviaria. Significa (anche) parola d’ordine di un arcipelago in espansione che sollecita un modello di sviluppo diverso e che ha ormai aperto, sul punto, un conflitto di dimensione nazionale».