Corriere della Sera - La Lettura
Come si dice felicità in dialetto
Due settimane fa «la Lettura» ha raccontato il progetto di uno psicologo inglese che sta raccogliendo vocaboli di tutto il mondo che indicano uno stato di benessere. Abbiamo chiesto a poeti e narratori italiani di continuare il lavoro con parole delle lor
Due settimane fa, su «la Lettura» numero #269 del 22 gennaio, abbiamo pubblicato le parole che dicono la felicità in ventisei lingue del mondo, così come le sta raccogliendo lo psicologo Tim Lomas della University of East London per il suo progetto, raccontato da Federica Colonna, «The Positive Lexicography Project»: un’enciclopedia di termini che indicano uno stato d’animo felice o un’esperienza positiva in decine di idiomi differenti: inuit e danese, italiano e bantu...
Tra i lettori che ci hanno scritto, sull’account Twitter @La_Lettura Alessandra Murgia segnalava un termine dialettale, prexiu, contentezza in sardo campidanese. Perciò abbiamo provato ad allargare l’esperimento alla ricchezza dei dialetti italiani, scovando le parole spesso inattese che esprimono la felicità, o le esperienze e gli stati d’animo positivi come la meraviglia, il piacere, il divertimento, la festa e il desiderio. Per farlo, abbiamo chiesto a studiosi, docenti, critici, artisti, musicisti, scrittori e poeti delle diverse regioni di rivelarci il termine dialettale che associano alla gioia.
In queste quattro pagine pubblichiamo i vocaboli scelti dagli autori, spesso legati a episodi personali: lemmi ed espressioni dalle radici talvolta molto antiche eppure tuttora d’uso corrente; onomatopee che raccontano la gioia attraverso il rumore che fa; aggettivi che diventano nomignoli; parole che sanno descrivere l’astratto dell’aria o il concreto dei sassi che si lanciano in mare; grida di bambini o conversazioni di anziani. Friccico e prisce, sprucajen e ciauru... Da ciascuna di queste parole emergono spezzoni di vita e di costume da tutto il Paese, così come si riverberano in colloqui familiari, giorni di festa, giochi tra amici, cerimonie, tradizioni.
àbse
(si dice di qualcosa di gigantesco, ma rappresenta anche la vastità del vuoto; dialetto
umbro). Suggerisce questo vocabolo la poetessa Anna Maria Farabbi, nata a Perugia nel 1959, autrice di versi, talvolta anche in dialetto, oltre che di romanzi e saggi; tra i suoi libri (appunto) Àbse (Il ponte del sale), Il segno
della femmina (Lieto Colle) e Dentro la O (Kammeredizioni). «È una parola che mi rimanda all’epifania di un’abissale vastità: quando mio padre raccontava un fatto, una cosa immensa, che non si poteva immaginare più grande, diceva àbse, e c’era proprio una fisiognomica del volto, che mutava, una espressione che si allargava, come la meraviglia dei bambini. Ma àbse aveva anche il significato di vuoto: “Com’è quella casa? Àbse”, una casa vuota».
l’ària
(significa aria, etere, ma la prima vocale è aperta, come una e: «l’eria»; dialetto roma
gnolo). Evoca questa parola Manuel Cohen (Miglianico, Chieti, 1967), critico e studioso di poesia dialettale, autore di raccolte come
Winterreise - La traversata occidentale e L’orlo (Edizioni Cfr): «La parola è entrata autorevolmente nella storia della poesia italiana con Tonino Guerra (1920-2012). Fu la prima parola con cui il poeta, reduce dal campo di concentramento di Troisdorf, riusciva a esprimere la gioia di essere in vita. L’ària è la felicità creativa, lo stupore creaturale ed esistenziale. Implica l’aver introiettato un percorso di leggerezza (fisica e intellettuale) che porta in sé tutto l’entusiasmo della scoperta della vita. È una felicità gratuita, senza un oggetto specifico: “L’ària l’è cla roba lizira/ cla sta datònda la tu testa” (“L’aria è quella cosa leggera che gira intorno alla tua testa”)».
ariòma
(convulsione, tremito, ma anche smorfia
del bambino che dorme; dialetto trentino). A scegliere il vocabolo è Walter Nardon, nato nel 1970 a Zurigo ma presto tornato a Cembra, in Trentino; saggista e scrittore, è tra i fondatori del Seminario internazionale sul romanzo all’Università di Trento con Massimo Rizzante e Stefano Zangrando, ed è autore di saggi come L’illusione e l’evidenza (Mimesis) e romanzi come Sibber (Effigie). « Ariòma era la parola che i miei genitori usavano per uno spavento che però si risolve bene, quando il pericolo è scampato e si racconta con sollievo, parola antica che ancora si usa molto. Si dice al bambino che ha rischiato di rovesciarsi addosso la pentola bollente, “m’hai fatto quasi patir l’ariòma”, o “saltar for l’ariòma”: sottolinea la natura eventuale del rischio e la ricorda con un lieto fine».
àrzare
(argine; dialetto vicentino). Il vocabolo lo suggerisce il poeta Andrea Ponso, nato a Noventa Vicentina nel 1975, che si occupa di letteratura, teologia e traduzione dall’ebraico biblico; tra i suoi libri la raccolta I ferri del
mestiere (Mondadori), il testo Letture Bibliche, mentre la sua nuova traduzione dall’ebraico del Cantico dei cantici è di prossima uscita. « Àrzare: mi è sempre piaciuto il suo significante tagliente e aperto, concretissimo; che si alza e attraversa i luoghi d’acqua e i canali delle mie zone, tra campi e cespugli; un suono secco ma in movimento, un significante che taglia le gambe e ti costringe ad andare avanti, come la poesia».
la barbiséra
(la vagina pelosa; dialetto milanese). Riporta questo vocabolo Nanni Svampa (Milano, 1938), scrittore, cantante, attore, fondatore del gruppo musicale e cabarettistico de I
Gufi, interprete e traduttore in lingua milanese delle canzoni di Georges Brassens; Svampa si è dedicato a lungo alla riscoperta delle canzoni popolari e delle tradizioni musicali lombarde. «A qualunque età, secondo la tradizione dei vecchi meneghini, un uomo non può che eccitarsi e godere vedendo l’organo sessuale femminile non rasato, con tanto di pelazzi che adornano il naturale buco del desiderio e facilitano l’orgasmo. Perciò la bar
biséra, parola che troviamo in molte canzoni del repertorio da osteria, è solo uno dei modi per definire l’organo sessuale femminile, perché esiste una lista assai creativa e metaforica nel gergo popolare, come riporta Carlo Porta in un suo celebre sonetto».
çiauru
(odore, fragranza; dialetto siculo). La parola è suggerita da Renato Pennisi (Catania, 1957), poeta, autore di La correzione del sag
gio (Tringale), Mai più e ancora (Edizioni dell’obliquo) e, in dialetto, Allancallaria (Prova d’autore), Pruvulazzu (Interlinea). «In siciliano çiauru è l’odore, la fragranza, il ponte sicuro che rinnova il percorso di anni lontani, di luoghi perduti ma indelebili. Penso al profumo di sapone d’olio delle lenzuola bianche, dei materassi di paglia, all’odore di zagara di mia madre, di muffa dei solai, al festoso profumo di sugo di pomodoro per casa la domenica mattina, all’aroma caldo e dolciastro della ragazza che, da adolescente, ho baciato e amato».
çuc
(piccolo colle, cocuzzolo, pronuncia ciùc; dialetto friulano). È la parola evocata dal poeta Pierluigi Cappello (Gemona, provincia di Udine, 1967), autore di numerose raccolte tra cui Le nebbie (Campanotto), Il me Donzel (Boetti), Dittico (Liboà, premio Montale),
Mandate a dire all’imperatore (Crocetti, pre
mio Viareggio-Rèpaci), Azzurro elementare. Poesie 1992-2010 (Bur) e la recente Stato di
quiete. Poesie 2010-2016 (Bur). «Significa piccolo colle ed è il luogo in cui sono cresciuto. Un piccolo colle con poche case, tre per la precisione, che appartenevano a tre fratelli, i miei bisnonni. È una parola per me evocativa di felicità, perché ho avuto un’infanzia felice: mi fa venire in mente le cose prima del terremoto, come se avessi vissuto due civiltà, quella prima e quella dopo; mi manda lontano nel tempo che non c’è più. Quando si stava nel tempo con una durata».
di chi si’ tu?
(di chi sei tu, a quale famiglia appartieni;
dialetto abruzzese). Segnala quest’espressione la poetessa e artista Tiziana Cera Rosco (1973), autrice di Anatomia del solo (Cuoreinverso) e Il compito (La vita felice), nata e residente a Milano ma originaria dei dintorni di Barrea in Abruzzo. «L’espressione dice “di chi sei tu?”. Ossia “a chi sei tu”, “a chi appartieni?”. Si risponde col nome del nonno. La famiglia di mio padre era una famiglia di figli maschi. Quando in paese, nel Parco nazionale d’Abruzzo, me lo chiedevano, rispondevo “di Tutucc” e tutti sapevano a chi facevo capo. E anche io, dai miei pantaloni, dai miei capelli corti e da quante scale sapevo di correre e saltare in paese fino alla diga. È la vita che mi sostiene tuttora, un dialetto consonantico e chiuso, come un animale dentro l’animale più violento che sono adesso, nel mio corpo da adulta».
er frìccico
( fremito, palpitazione, vibrazione, scossa, sussulto, tremore, frizzantezza; dialetto ro
manesco). Vocabolo suggerito da Cetta Petrollo (Roma, 1950). Vedova del poeta Elio Pagliarani, scrittrice poliedrica, ha all’attivo il romanzo Senza permesso (Stampa Alternativa), il libro di prosa All’epoca che le fanciulle (Zona), le sillogi Sonetti e stornelli (Tam Tam), Poesie e no e Recitativi d’amore (entrambi per Manni), Il salto della corda (Ottonieri). «È un modo di percepire l’esistenza che si trova nei testi di Ettore Petrolini, nelle canzoni nazional popolari di Armando Trovajoli e nelle commedie di Garinei e Giovannini. Quando si sente er frìccico ner còre si è contenti, perché è anche una forma di innamoramento senza che ci sia un altro di cui innamorarsi, l’avvicinarsi del canto e dell’attimo dell’illuminazione e di essere attraversati dal bisogno di scrivere. È un’attesa gioiosa prima di creare».
frugiate
(caldarroste; dialetto pistoiese). Suggerisce questa parola la poetessa Francesca Matteoni (Pistoia, 1975), autrice di raccolte come Artico (Crocetti), Appunti dal parco (Vydia),
Acquabuia (Aragno) e di Di là dal bosco (Le voci della luna) e del romanzo Tutti gli altri (Tunué). «Io vengo da una terra di castagne, sono pistoiese di collina e monti, ogni anno le raccolgo almeno una volta. La parola fru
giate è legata all’infanzia, per me vuol dire tirar fuori la pentola coi buchi, andar nel bosco nella sambuca pistoiese, castagneti secolari che hanno salvato molta gente durante la guerra, come le patate per gli irlandesi»
gnalèi
( tesoretto, piccola riserva; dialetto valdostano). La parola in patois scelta da Alexis Bètemps, nato a Saint-Christophe (Aosta) nel 1944, per trent’anni presidente del Centre d’Etudes Francoprovençales di Saint-Nicolas, già presidente dell’Union Valdôtaine, autore di libri come La vie quotidienne dans les al
pages valdôtains (Priuli & Verlucca, premio Mario Rigoni Stern per la letteratura plurilingue nelle Alpi) e per lo stesso editore Il tempo
sospeso ed Erbario. « Gnalèi: così si chiama dalle mie parti, nell’Alta Valle, il tesoretto dei bambini, quando durante le feste si ricevevano caramelle e frutta secca, e si tenevano da parte, si nascondevano per mangiarsele giorno per giorno. Oppure è la riserva che fanno le formiche, ma anche il pane della festa».
gne noccia
(che non nuoccia, che la situazione volga al meglio; dialetto fermano-maceratese-camer
te). Scelta da Diego Poli (1950), professore di Glottologia e linguistica all’Università di Macerata: «Se l’italiano letterario e la maggior parte dei dialetti conservano felicità, continuando il significato latino di “fecondità, fertilità”, le varianti fermano-maceratese-camerti sono invece caratterizzate dalla modalità espressiva gne noccia che, derivando dall’ingiuntivo ne noceat, esprimono piuttosto l’invito augurale a ché la situazione si volga al buono. Un’attestazione si trova in Dante (“non ti noccia la tua paura”, Inf. VII 4-5) e oggi l’espressione è ancora usata, ad esempio dopo uno starnuto oppure di fronte a un bambino piccolo. In tal senso si oppone a malora (“rovina”), già in Boccaccio, derivante da male augurium ».
grinor
(affetto, affezione, sollecitudine; dialetto
piemontese). Termine scelto da Giovanni Tesio (Piossasco, provincia di Torino, 1946), filologo, critico letterario, storico della lingua italiana, esperto in dialettologia, che ha recentemente pubblicato la raccolta in vernacolo Stantesèt sonèt («Settantasette sonetti», Centro Studi Piemontesi). « Grinor è quando la gioia coincide con l’amore per le cose della propria terra, è una percezione interiore che conduce a un senso di appartenenza, una parola che si apprende dalla letteratura come dalla vita, a volte più dalla lettura di poeti come Antonio Bodrero che dall’uso quotidiano dei genitori o dei nonni. È il canto della memoria che si è fatta nel tempo parlante e che spinge a dare voce a un intero mondo di leggende e tradizioni». magòun
(magone, groppo, nodo alla gola, senso di vuoto interiore; dialetto modenese). Scelto da Alberto Bertoni, nato a Modena nel 1955, docente di Letteratura italiana contemporanea all’Università di Bologna, critico letterario, poeta, saggista, direttore di collane poetiche; Bertoni ha pubblicato diverse sillogi come Le
cose dopo (Aragno), Ho visto perdere Varenne (Manni), Ricordi di Alzheimer (Book) e Il letto
vuoto (Aragno). «Per molti magòun è anche un sentimento forte di esperienza conoscitiva interiore, una malinconia non arresa, la comprensione soffice dell’esistere. È lo stesso spleen che esprime nelle liriche il poeta modenese Antonio Delfini, un’emozione che fa superare la percezione di vuoto e ribalta la situazione, conducendo il pensiero verso una sorta di pacificazione rasserenante».
pe’ la Majella
(significa «per la Majella», esiste anche in abruzzese nella versione pe’ la Majelle, con e