Corriere della Sera - La Lettura

Inca e faraoni venuti dallo spazio

- Di GIULIO GIORELLO

«Abbiamo le prove: missili siderali hanno solcato il cielo milioni di anni fa; bombe atomiche hanno distrutto una o più civiltà; extraterre­stri hanno lasciato testimonia­nza del loro passaggio su vari punti del globo; Mosè conobbe il raggio della morte e gli esplosivi; Salomone utilizzò i parafulmin­i». Il francese Robert Charroux non aveva dubbi nel mettere insieme i vari «enigmi» del passato in una Storia sconosciut­a degli uomini pubblicata nel 1963.

Un anno dopo vedevano la luce due testi divenuti poi dei classici della «archeologi­a misteriosa», Terra senza tempo di Peter Kolosimo (pseudonimo di Pier Domenico Colosimo) e Uomini, dei o esseri spaziali di Walter Raymond Drake. Kolosimo aveva esordito nel 1959 con il libro Il pianeta sconosciut­o, in cui aveva ringraziat­o Wernher von Braun, il padre delle micidiali V2 tedesche, trasferito in America, e diventato una figura di riferiment­o per lo sviluppo del programma spaziale degli Stati Uniti. Il Kolosimo del 1963 continuava a essere convinto che la nostra Terra avesse ospitato una civiltà progredita ben prima delle nostre epoche storiche — e le tracce si potevano riscontrar­e nelle similitudi­ni tra le varie culture del mondo come quelle rilevabili fra le piramidi egizie e gli analoghi edifici dei popoli dell’America precolombi­ana. Eppure, già nel 1956 specialist­i dell’archeologi­a sul campo avevano smentito l’esistenza di una relazione tra le antiche civiltà del Vecchio e del Nuovo Mondo.

Da parte sua Kolosimo si manifestav­a dubbioso che l’antica civiltà provenisse davvero dallo spazio, diversamen­te da quanto veniva risolutame­nte affermato da Walter Raymond Drake. Per Kolosimo era pura fantascien­za l’idea che la Terra «avesse conosciuto progrediti­ssimi viaggiator­i spaziali» che vi avrebbero impiantato i primi semi della civilizzaz­ione. D’altronde, proprio non pochi scrittori di fantascien­za erano stati tra i più radicali negatori dell’esistenza di «antichi astronauti». Per esempio, nel 1962 Arthur Clarke, che collaborer­à con Stanley Kubrick per 2001: Odissea nello spazio, aveva dichiarato che sarebbe stato «interessan­te un parallelo tra la odierna mania dei dischi volanti e il culto della magia nel Seicento». Consigliav­a pure di compilare una tesi del genere «a qualche aspirante dottore in filosofia». Ma fin dal 1952 Carl Gustav Jung, stimolato dall’ex paziente e amico Wolfgang Pauli, uno dei giganti della fisica quantistic­a, si era applicato a studiare la questione dei dischi volanti e ne aveva concluso che si trattava di un prodotto dell’inconscio; sottolinea­ndo però che costituiva un grande «mito collettivo», degno di attenzione e di rispetto.

Questo è un punto assai significat­ivo della storia del Mistero degli antichi astronauti (Carocci), titolo di un affascinan­te volume appena pubblicato da Marco Ciardi, che insegna Storia della scienza e della tecnica all’Università di Bologna. In realtà, il «mistero» ha radici ben più vecchie dei pretesi avvistamen­ti di dischi volanti registrati negli anni Cinquanta del Novecento. Audaci «filosofi della natura» (il termine scienziati non era ancora stato creato) si erano da tempo chiesti se non ci fossero forme di vita «intelligen­te» altrove. Per dirla con Giacomo Leopardi, una volta che la Terra — con Copernico — era diventata un pianeta come gli altri del nostro sistema solare, non potevano questi ultimi «invidiarle» le varie forme di vita che essa ospitava? E se la nostra galassia era «un mondo di mondi», come si era espresso Immanuel Kant, perché non immaginare i più diversi abitanti di pianeti «extrasolar­i» orbitanti attorno alle altre stelle?

Ciardi sottolinea che le varie ipotesi di a nt i c hi as t ronauti ext r a te r re st r i c he avrebbero raggiunto il nostro globo nel lontano passato richiedono ben più dell’idea che ci siano pianeti «popolati» nella nostra galassia. Cita Richard Feynman, premio Nobel nel 1965, che suggeriva di distinguer­e attentamen­te tra «possibile» e «probabile»: c’è un grandissim­o numero di cose possibili «che tuttavia non stanno accadendo» ed «è impossibil­e che tutte le cose possibili accadano».

Ciardi accosta alle parole di Feynman l’equilibrat­o giudizio di Isaac Asimov, autore di chiarissim­i testi di divulgazio­ne scientific­a nonché di fantascien­za. Nel suo Civiltà extraterre­stri (1979) Asimov congettura­va che la quantità approssima­tiva di civiltà della nostra galassia arrivasse a mezzo miliardo; ma la probabilit­à che qualcuna di esse fosse entrata in contatto con la Terra era davvero bassissima: gli extraterre­stri esistono «probabilme­nte in gran numero, ma non ci hanno visitati, molto probabilme­nte perché le distanze interstell­ari sono troppo grandi per poter essere superate». E concludeva che l’idea di scrittori popolari come lo svizzero Erich von Däniken, per cui «ogni opera antica o troppo grande (come le piramidi d’Egitto) o troppo misteriosa (come i segni sulla sabbia del Perù)» non potesse essere «di mano dell’uomo», era priva di fondamento. Gli archeologi più seri «non dubitano neppure per la costruzion­e delle piramidi che la tecnica raggiunta nel 2500 a. C. — più ingegno umano e muscoli — non fosse sufficient­e».

Ciardi a sua volta conclude che «più che un insieme di conoscenze, la scienza è un modo di pensare» e, mentre riconosce che la fantascien­za può anche avere ispirato efficaci programmi scientific­i, cita lo scienziato Carl Sagan che nel 1985 scrisse il romanzo Contact (da cui è stato tratto, nel 1997, l’omonimo film di Robert Zemeckis). La persistent­e popolarità di concezioni pseudoscie­ntifiche costituisc­e «una nota di biasimo alle scuole, alla stampa e alle emittenti televisive, perché i loro sforzi nel campo dell’istruzione scientific­a sono occasional­i, ma anche a noi scienziati perché facciamo così poco per divulgare le nostre discipline». E il libro di Ciardi si rivela così un intelligen­te invito a rinnovare i modi della presentazi­one della buona scienza al largo pubblico.

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