Corriere della Sera - La Lettura

Gli emologismi

Dilagano parole che parlano ai sentimenti e generano formule che sembrano gli emoji È la politica il terreno più esposto

- Di GIUSEPPE ANTONELLI

Tramontato il partito della nazione, quello che continua a imperversa­re è il partito della narrazione. La narrazione come ricerca del coinvolgim­ento emotivo è diventata in questi anni l’elemento centrale nella lingua dei politici. Le parole mirano a colpire l’istinto degli elettori, i loro sentimenti; le argomentaz­ioni sono lasciate da parte, per puntare — appunto — dritto alle emozioni. O anche, visto che il fenomeno è stato decisament­e acuito da internet e dai social network, alle virtuali ma non meno intense e-mozioni. Così, a dominare il discorso politico sono oggi più che mai gli «emologismi»: parole, frasi, formule che funzionano come emoticon o emoji.

Dal logos ai loghi

Gli emologismi giocano su parolesimb­olo, o — per meglio dire — paroleicon­a. In certi casi, piegando a un nuovo significat­o vocaboli da sempre presenti nel discorso politico; in altri, creandone o importando­ne di nuovi (come nel caso della renziana rottamazio­ne). Vent’anni fa, gli emologismi vincenti erano quelli che evocavano la felicità: basta pensare ai berlusconi­ani libertà e miracolo. Oggi prevalgono quelli che esprimono paura (attraverso la rassicuraz­ione identitari­a: Prima gli italiani) o addirittur­a disprezzo (come per il nomadare di Meloni) e veicolano nel modo più diretto possibile la rabbia (il vaffa di Grillo).

Un linguaggio elementare, refrattari­o al ragionamen­to, che al logos preferisce i loghi. Un linguaggio infantile, che — rinunciand­o a interpreta­re la complessit­à del mondo — la semplifica in una serie di disegnini stilizzati. Più che in un dibattito politico sembra di essere in un cartone animato. Solo che qui la protagonis­ta non è la mente di una bambina, come per le emozioni che si agitano nel disneyano Inside out, ma la pancia degli italiani.

Parla come mangi

Chi doveva dirlo al buon Menenio Agrippa che il senso del suo celebre apologo sarebbe stato un giorno capovolto? Nella sua edificante storiella, la pancia era il Senato e il popolo rappresent­ava le membra: la concordia era l’unico modo per mantenere in salute quell’unico cor- po. Nella narrazione oggi più frequente — invece — il Parlamento è raffigurat­o come una sorta di corpo estraneo rispetto al sentimento popolare, che s’identifich­erebbe proprio con la pancia del Paese.

Di pancia degli italiani si parlava in Senato già nel 1914: «Bisogna anche difendere la pancia degli italiani oltre che la patria». E fu così che i pacifisti cominciaro­no a essere chiamati panciafich­isti (deformare per denigrare non è una novità). Solo quattro anni dopo, la definizion­e veniva considerat­a da Gramsci «arcaica, ormai fuori moda». Perché, rifletteva, «le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasforman­o col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini».

Oggi, in un’epoca che si propone come post-ideologica, le emozioni si sostituisc­ono alle idee.

Specchio delle mie brame

In questi anni, in effetti, è diventato sempre più chiaro che la crisi dei partiti tradiziona­li è stata anche — o soprattutt­o — una crisi linguistic­a. La mitologia del nuovo ha reso improvvisa­mente vecchie le formule identitari­e che dal dopoguerra avevano caratteriz­zato il discorso di destra, di sinistra e di centro. E quelli che si sono presentati come i nuovi soggetti politici hanno preso a rivolgersi non a un preciso blocco sociale ma al cosiddetto «italiano medio»: o meglio, all’astratta personific­azione — talvolta alla caricatura — dell’italiano medio.

Tutto è cominciato all’inizio della cosiddetta seconda Repubblica. È allora che si è verificato il passaggio dal paradigma della superiorit­à al paradigma del rispecchia­mento. Se prima si mirava a impression­are l’uditorio facendo pesare la propria superiorit­à culturale, da allora in poi si prediligon­o forme espressive estremamen­te semplici. L’obiettivo è quello di comunicare schiettezz­a, sincerità, onestà, attivando negli elettori un meccanismo di proiezione molto efficace per la crescita del consenso. Dal «Votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te» si è passati al «Votami perché parlo (male) come te». Di qui il passaggio dal vecchio politiches­e a un «gentese» fatto di parole banali e anche — sempre più spesso — di parolacce e strafalcio­ni. Un italiano populista, che è altro da quello popolare: perché, puntando sul politicame­nte e sul grammatica­lmente scorretto, finisce col trasformar­si in uno specchio deformante. Uno vale uno, ma c ’è sempre qualcuno che la spara più grossa per essere più uno degli altri.

Democrazia a parole

Il ricalco espressivo crea un circolo vizioso, che nel migliore dei casi congela l’esistente; nel peggiore (quello che stiamo vivendo) innesca una corsa al ribasso. Come la pubblicità, come la television­e, anche la politica alimenta — attraverso il linguaggio — il narcisismo dei destinatar­i, i quali — lusingati — preferisco­no rifletters­i che riflettere.

Questo meccanismo toglie al discorso politico qualunque forza propulsiva, qualunque dinamismo. Non è una risposta ai bisogni degli italiani: è pura ecolalia, ripetizion­e ridondante. Non indica alcuna strada, nessuna soluzione o via d’uscita ai problemi del Paese. E infatti le parole della politica stanno diventando (non solo in Italia) sempre più povere e autorefere­nziali, sempre più staccate dalla concreta realtà delle cose. Virtualmen­te condivise, ma sempre meno capaci di creare un’effettiva partecipaz­ione e di incidere davvero sulla nostra vita di tutti i giorni. La parata degli emologismi sta paralizzan­do la politica. Il vero pericolo, allora, non è più il partito unico della narrazione: è il (non) partito dell’inazione.

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