Corriere della Sera - La Lettura
Gli emologismi
Dilagano parole che parlano ai sentimenti e generano formule che sembrano gli emoji È la politica il terreno più esposto
Tramontato il partito della nazione, quello che continua a imperversare è il partito della narrazione. La narrazione come ricerca del coinvolgimento emotivo è diventata in questi anni l’elemento centrale nella lingua dei politici. Le parole mirano a colpire l’istinto degli elettori, i loro sentimenti; le argomentazioni sono lasciate da parte, per puntare — appunto — dritto alle emozioni. O anche, visto che il fenomeno è stato decisamente acuito da internet e dai social network, alle virtuali ma non meno intense e-mozioni. Così, a dominare il discorso politico sono oggi più che mai gli «emologismi»: parole, frasi, formule che funzionano come emoticon o emoji.
Dal logos ai loghi
Gli emologismi giocano su parolesimbolo, o — per meglio dire — paroleicona. In certi casi, piegando a un nuovo significato vocaboli da sempre presenti nel discorso politico; in altri, creandone o importandone di nuovi (come nel caso della renziana rottamazione). Vent’anni fa, gli emologismi vincenti erano quelli che evocavano la felicità: basta pensare ai berlusconiani libertà e miracolo. Oggi prevalgono quelli che esprimono paura (attraverso la rassicurazione identitaria: Prima gli italiani) o addirittura disprezzo (come per il nomadare di Meloni) e veicolano nel modo più diretto possibile la rabbia (il vaffa di Grillo).
Un linguaggio elementare, refrattario al ragionamento, che al logos preferisce i loghi. Un linguaggio infantile, che — rinunciando a interpretare la complessità del mondo — la semplifica in una serie di disegnini stilizzati. Più che in un dibattito politico sembra di essere in un cartone animato. Solo che qui la protagonista non è la mente di una bambina, come per le emozioni che si agitano nel disneyano Inside out, ma la pancia degli italiani.
Parla come mangi
Chi doveva dirlo al buon Menenio Agrippa che il senso del suo celebre apologo sarebbe stato un giorno capovolto? Nella sua edificante storiella, la pancia era il Senato e il popolo rappresentava le membra: la concordia era l’unico modo per mantenere in salute quell’unico cor- po. Nella narrazione oggi più frequente — invece — il Parlamento è raffigurato come una sorta di corpo estraneo rispetto al sentimento popolare, che s’identificherebbe proprio con la pancia del Paese.
Di pancia degli italiani si parlava in Senato già nel 1914: «Bisogna anche difendere la pancia degli italiani oltre che la patria». E fu così che i pacifisti cominciarono a essere chiamati panciafichisti (deformare per denigrare non è una novità). Solo quattro anni dopo, la definizione veniva considerata da Gramsci «arcaica, ormai fuori moda». Perché, rifletteva, «le parole si adagiano nella realtà ideologica dei tempi, si plasmano e si trasformano col mutarsi dei (cattivi) costumi degli uomini».
Oggi, in un’epoca che si propone come post-ideologica, le emozioni si sostituiscono alle idee.
Specchio delle mie brame
In questi anni, in effetti, è diventato sempre più chiaro che la crisi dei partiti tradizionali è stata anche — o soprattutto — una crisi linguistica. La mitologia del nuovo ha reso improvvisamente vecchie le formule identitarie che dal dopoguerra avevano caratterizzato il discorso di destra, di sinistra e di centro. E quelli che si sono presentati come i nuovi soggetti politici hanno preso a rivolgersi non a un preciso blocco sociale ma al cosiddetto «italiano medio»: o meglio, all’astratta personificazione — talvolta alla caricatura — dell’italiano medio.
Tutto è cominciato all’inizio della cosiddetta seconda Repubblica. È allora che si è verificato il passaggio dal paradigma della superiorità al paradigma del rispecchiamento. Se prima si mirava a impressionare l’uditorio facendo pesare la propria superiorità culturale, da allora in poi si prediligono forme espressive estremamente semplici. L’obiettivo è quello di comunicare schiettezza, sincerità, onestà, attivando negli elettori un meccanismo di proiezione molto efficace per la crescita del consenso. Dal «Votami perché parlo meglio (e dunque ne so più) di te» si è passati al «Votami perché parlo (male) come te». Di qui il passaggio dal vecchio politichese a un «gentese» fatto di parole banali e anche — sempre più spesso — di parolacce e strafalcioni. Un italiano populista, che è altro da quello popolare: perché, puntando sul politicamente e sul grammaticalmente scorretto, finisce col trasformarsi in uno specchio deformante. Uno vale uno, ma c ’è sempre qualcuno che la spara più grossa per essere più uno degli altri.
Democrazia a parole
Il ricalco espressivo crea un circolo vizioso, che nel migliore dei casi congela l’esistente; nel peggiore (quello che stiamo vivendo) innesca una corsa al ribasso. Come la pubblicità, come la televisione, anche la politica alimenta — attraverso il linguaggio — il narcisismo dei destinatari, i quali — lusingati — preferiscono riflettersi che riflettere.
Questo meccanismo toglie al discorso politico qualunque forza propulsiva, qualunque dinamismo. Non è una risposta ai bisogni degli italiani: è pura ecolalia, ripetizione ridondante. Non indica alcuna strada, nessuna soluzione o via d’uscita ai problemi del Paese. E infatti le parole della politica stanno diventando (non solo in Italia) sempre più povere e autoreferenziali, sempre più staccate dalla concreta realtà delle cose. Virtualmente condivise, ma sempre meno capaci di creare un’effettiva partecipazione e di incidere davvero sulla nostra vita di tutti i giorni. La parata degli emologismi sta paralizzando la politica. Il vero pericolo, allora, non è più il partito unico della narrazione: è il (non) partito dell’inazione.