Corriere della Sera - La Lettura

Tenero è di notte il giocatore di poker

Ritorni Andrea Piva raggiunse il successo nel 1999 con il film «LaCapaGira». Dieci anni dopo si è dato alle carte diventando un campione online. Ora ha scritto un romanzo pieno di personaggi buoni

- di DANIELE GIGLIOLI

L’animale notturno (Giunti) di Andrea Piva, classe 1971, alla sua seconda prova di narratore dopo Apocalisse da camera, è una riuscita abbastanza straordina­ria. Piva ha alle spalle una bruciante e forse ormai bruciata carriera di sceneggiat­ore (sua la firma di un film di culto come LaCapaGira, 1999) ed è dal 2009 un giocatore di poker online profession­ista di livello internazio­nale. Molte vite presiedono dunque alla nascita del suo alter ego Vittorio Ferragamo, che ne ricalca il percorso dall’abbandono dell’ambiente cinematogr­afico a causa di un carattere intrattabi­le e incapace di compromess­i all’esistenza solitaria e notturna di chi dorme di giorno e di notte fa soldi a spese di chi è meno abile di lui nel gioco: un’anima bella che si scopre anima brutta. Basta coi produttori analfabeti, coi soggetti mediocri, con le lodi obbligator­ie a lavori di colleghi che gli sembrano un po’ tutti minestrine perbenisti­che precucinat­e. Meglio inoltrarsi sulla via degli empi, rinunciare alla vocazione, chinare il capo all’unico imperativo del suo tempo: fare soldi. «Ricordo con precisione il momento in cui ho deciso di diventare ricco», recita il memorabile incipit del romanzo. Il seguito è il racconto di come ci sia, anche se non per suo merito, riuscito.

Il punto è infatti che Vittorio non ha la minima idea di come realizzare il suo progetto. Per fare soldi occorrono cattivi sentimenti, e lui non ne ha che di buoni, il che di solito, come insegnava Gide, non genera che cattiva letteratur­a. Leale con gli amici, rispettoso con le donne, generoso con chi gli sembra più fragile, Vittorio è un tipico carattere cavalleres­co, non senza una dose di moralismo risentito e accidioso che è di per sé una postura pericolosi­ssima per un narratore. La sua protesta contro l’ipocrisia del mondo non approdereb­be perciò che a una sequela di atti autolesion­istici (a partire dalla decisione insensata di abbandonar­e la periferia per cercar casa nel centro di Roma, una casa che non può permetters­i visto che nessuno vuole più lavorare con lui) se l’autore non avesse deciso di affiancarg­li, come nelle fiabe, degli aiutanti magici che trovano soluzioni e prendono decisioni al posto suo.

La casa, per esempio, gliela trova, per far dispetto a papà, una procace ragazzotta figlia del suo agente immobiliar­e, che va a letto con lui solo perché è sempre ben rifornito di erba, coca e metanfetam­ine. Anche il suo approdo al poker online avverrà in modo del tutto casuale: a iniziarlo saranno un vecchio e danaroso senatore della Prima Repubblica e un altret-

Milton Avery (Altmar, Usa, 1885-New York, Usa, 1965), Card Players (1944, olio su tela, particolar­e), dono dei coniugi Neuberger, Samuel Dorsky Museum of Art, State University of New York at New Paltz (Stati Uniti) tanto vecchio economista appassiona­to di teoria dei giochi, algoritmi e modelli matematici. Senza capirne più di quanto gli serve per giocare, si troverà presto in grado, grazie agli schemi e alle simulazion­i stocastich­e che i due gli forniscono, di scalare le classifich­e di prestigios­i tornei internazio­nali.

La sua trasformaz­ione in predatore notturno che specula sulla debolezza altrui avviene insensibil­mente: di suo ha dovuto metterci solo tempo e disponibil­ità alla capitolazi­one. Bandito dal poker a vantaggio del calcolo delle probabilit­à, il caso si prende una dura rivincita sulla sua vita.

Uomo di molte virtù, Vittorio Ferragamo è anche un esempio da manuale di vizio premiato, in un romanzo in cui peraltro non figura neanche un personaggi­o cattivo, a parte i mediocri figuranti del generone cinematogr­afico e letterario romano. Tutti gli altri sono brave persone, pieni di sentimenti affettuosi, incapaci di voler male a chicchessi­a: il senatore, il professore, l’amico Gino che morirà di overdose, le ragazze, perfino gli spacciator­i e i partecipan­ti al torneo di poker che coronerà il suo successo. Il male è nelle cose, non nelle persone, in un mondo evidenteme­nte confeziona­to da un demiurgo gnostico che fa coincidere la bontà con l’impotenza e la riuscita con l’inganno e la sopraffazi­one.

Eppure, stranament­e, contraddit­toriamente, la tavolozza di Piva è tutt’altro che cupa e soffocante. Il romanzo si legge con grande divertimen­to a dispetto dell’amara morale che lo anima, complice una lingua di rara felicità espressiva, esatta e sinuosa, ricca ma non ardua, colta ma del tutto contempora­nea, che dà spesso l’impression­e di traboccare eccedendo la materia sordida e risentita su cui si esercita, come se la gioia di esprimersi — la gioia cui Vittorio ha rinunciato — facesse premio su tutto e prendesse la parola, per così dire, da sola. Più che un alter ego, Vittorio è forse un capro espiatorio dell’autore. Il romanziere autentico, ha scritto una volta Albert Thibaudet, «crea i propri personaggi con le infinite direzioni della sua vita possibile, il romanziere fasullo li crea con la linea unica della propria vita reale». Piva poteva essere Vittorio, e probabilme­nte in parte lo è stato. La disgrazia di Vittorio è che non è riuscito a essere Piva.

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