Corriere della Sera - La Lettura
Un colpo di vento fece volare la filosofia
Thomas Hürlimann si diverte a ricostruire il legame tra Nietzsche e il suo ombrello
Nel Crepuscolo degli idoli avrebbe dato una dimostrazione dirompente di «come si filosofa col martello». Ma è impugnando uno strumento più enigmatico e leggiadro che il distruttore della metafisica d’Occidente aveva avviato la sua impresa: vibrando contro un cielo di montagna che incombeva minaccioso filosofici colpi di ombrello. Si parla di Friedrich Nietzsche, naturalmente, e non si scherza. Anche se Thomas Hürlimann, scrittore svizzero di formazione filosofica e spiccato talento teatrale, non resiste alla tentazione di divertirsi e di trasformare Il viandante e la sua ombra conte- nuto in Umano, troppo umano nel viandante che cammina col suo ombrello. Il gioco con le rime e i diminutivi funziona perfino meglio in italiano che in tedesco, ed è grazie all’intelligenza vigile della traduttrice del pamphlet L’ombrello di Nietzsche, Mariagiorgia Ulbar, che si gode appieno dell’arguzia e della leggerezza di questo strano scritto narrativoteatrale-teoretico-biografico.
Hürlimann non ha dovuto inventarsi nulla. Pare che davvero, camminando sui sentieri dell’Alta Engadina dove dal 1881 aveva preso a trascorrere le sue estati, Nietzsche avesse sempre con sé un vistoso ombrello rosso. Lo attestava il portiere dell’hotel di Sils Maria. Lo ricorda Theodor Adorno, che captò la diceria andando in pellegrinaggio in quelle valli. Lo ribadisce Derrida, che si interroga a lungo sul senso di un misterioso appunto annotato da Nietzsche negli anni della follia e pubblicato postumo nell’edizione di Colli e Montinari: «Ho dimenticato il mio ombrello».
Niente di più facile che il grande nichilista stringesse in mano l’ombrello quando fu colto di sorpresa — come da un temporale — dalla più rivoluzionaria delle sue idee. Accadde nei pressi del Piz Surlej, vicino alla grande pietra triangolare detta «la piramide dell’eterno ritorno». Nietzsche era uscito nonostante il vento. È lì che si accese il lampo: l’aldilà e l’aldiquà sono la stessa cosa, non c’è scissione, non c’è confine tra corpo e anima, tra il mondo terreno e il mondo superiore. Del cielo delle idee, l’iperuranio, la cupola dell’ombrello evocava la linea arcuata. Mentre il manico tirava giù quella volta celeste verso terra. Arricciato nella spira dell’impugnatura, poi, il bastone richiamava il serpente che, con l’aquila, formava la coppia degli animali araldici di Zarathustra. Avvinghiati l’uno all’altro nella forma stilizzata dell’ombrello, il rettile ctonio che striscia al suolo e il grande uccello alato che sfida le vette rappresentavano il pensiero più audace.
All’arditezza di quell’intuizione Nietzsche, si sa, avrebbe dovuto soccombere. Crollò a Torino, sempre in un giorno di pioggia allorché, straziato dalla sorte di un cavallo allo stremo delle forze, gli corse al collo, l’abbracciò e lo chiamò «fratello». Significativo che, nel momento in cui scivolò nella follia che avrebbe fatto regredire i suoi pensieri «al balbettio di un bambino» ( Knirps, che in tedesco è sia l’infante sia l’ombrello pieghevole) gli cadde di mano lo strumento su cui si era sorretto: l’ombrello rosso rimase a terra, dimenticato sul marciapiede di piazza Carlo Alberto.