Corriere della Sera - La Lettura
Nel bianco dipinto di bianco l’inverno pieno di Scarabicchi
Riproposta, vent’anni dopo l’uscita, una intensa raccolta dell’autore marchigiano. I versi di una stagione che è una metafora e anche di più, con un lessico rarefatto che accentua il segno filosofico delle parole
La poesia di Francesco Scarabicchi si fonda su una specie di rapporto rovesciato tra l’economia espressiva, che è rigorosissima, e la tenuta del verso, la capacità di risonanza e d’espansione delle immagini. Fin dagli esordi è un poeta che ha lavorato la lingua soprattutto «in levare», sfrondando, levigando, calibrando, riducendo all’osso. Ha in odio, sotto i punti di vista, la falsificazione, la parola imprecisa, esteriore, che scivola via.
Tutto questo, ovviamente, non è un fatto soltanto stilistico. Si tratta infatti di un poeta autentico, in cui dunque le scelte espressive sono tutt’uno con una particolare visione e intelligenza delle cose. E con un’etica, anche. Precisione dello sguardo e precisione della lingua: la sua essenzialità espressiva corrisponde, o meglio risponde in tutto e per tutto al grande nemico di questa poesia, il «tempo che non trattiene/ nulla di ciò che è vivo». Di Scarabicchi Einaudi ha ripubblicato ora il terzo libro di versi, Il prato
bianco, che era uscito giusto vent’anni fa per le edizioni l’Obliquo. Ne valeva la pena. Queste poesie, che pure sono principalmente mosse da un’interrogazione verticale e assoluta, segretamente filosofica, sulla natura dell’esistenza e sulla consistenza della stessa realtà, possono leggersi anche come un’immagine tutt’altro che equivoca sugli ultimi decenni della nostra storia. Vale a dire: sui rapporti tra gli uomini, la vicinanza, l’amicizia, la partecipazione, la verità e il calore dei cuori. Ed è presto detto, perché qui è neve e freddo dappertutto. Come un prato bianco, appunto.
Scarabicchi non è stato certo il solo a riconoscere nell’inverno la metafora più congeniale per definire non solo la vita come tale ma una storia e anni ben determinati. Anzi, proprio l’inverno ha rappresentato l’immagine forse più condivisa e feconda del secondo Novecento italiano, tanto più nella sua parte conclusiva. Ma è pur vero che in queste poesie il grande tema-inverno raggiunge per rastremazione concettuale e formale un punto di non ritorno, anche all’interno della vicenda poetica dell’autore.
Il libro è dedicato a Franco Scataglini, che di Scarabicchi, come pure del suo compagno di strada Massimo Raffaeli, è stato il maestro, non solo di poesia. Il mare, il vento, il cielo sono allora quelli dell’Adriatico, gli scorci e le figure, fissate come per sempre proprio sul punto del loro sparire, sono per lo più quelli di An- cona (dove il poeta è nato nel 1951). Paesaggi, luoghi, scenari appaiono però come inabissati, ogni cosa ristretta, aggrappata al suo solo nome: un sostantivo, un toponimo, un semplice segno. Il titolo è esattissimo in questo senso: il bianco è il colore insieme tematico, psicologico e stilistico di questa poesia. «Strada bianca», «pensieri bianchi», «ombra bianca», «povero niente bianco»...
Assieme e attorno al bianco si creano delle autentiche catene sinonimiche: neve, freddo, gelo, vetro, vento (il vento caro proprio a Scataglini), sonno, muro, lontananza, ma anche «dialogo muto», «oblio di neve», «neve di nulla». E ancora, proprio attorno al leopardiano «nulla»: niente, vuoto, assenza, ombra, sembianza, nessuno, orma, solitudine, polvere, silenzio. Siamo a un passo dal nichilismo? Credo di no. È vero infatti che la cura portata alla restituzione di ciò che si è visto, la volontà di non travisare, di essere fedeli ai dati delle percezioni e al significato profondo dell’immagine (proprio fedeltà è la parola più importante per comprendere l’etica della scrittura di questo poeta), il calore e la passione che pure coesistono con l’oscurità e i fantasmi della mente, rendono il discorso poetico necessario e persuasivo.
Proprio sul limite, la poesia trova da ultimo la sua resistenza. «Porto in salvo dal freddo le parole,/ curo l’ombra dell’erba, la coltivo/ alla luce notturna delle aiuole,/ custodisco la casa dove vivo/ dico piano il tuo nome, lo conservo/ per l’inverno che viene, come un lume»: quando è al suo meglio questi versi possiedono una capacità di risoluzione (e una risolutezza) indiscutibile, che è insieme ritmica e di pensiero, musicale e di comprensione delle cose. Scarabicchi ama Saba, sopra tutti, e poi Betocchi, Sereni, Caproni. La sua disposizione di base, diciamo pure la sua musa è quotidiana, domestica, esistenziale, ma come detto piegata e per certi versi compromessa, nelle sue possibilità di accordo e di cantabilità della vita, dal radicalismo dell’interrogazione e dall’onestà delle risposte, tra «il niente» che «disfa/ la trama di ogni giorno» e un semplice uomo che prova a tenerla insieme: «Riavvolgo piano,/ nella notte,/ al mio rocchetto,/ il filo». Si capisce così perché proprio Caproni rappresenti il poeta più influente su di lui, tanto più in questo libro dove la concentrazione e l’essenzialità espressive avvicinano molti testi all’haiku.
Enrico Testa ha parlato in un’occasione di «monachesimo lessicale». Ed è vero, perché il lessico basico non si può non sentire nella sua pregnanza, e così le giunture sintattiche più elementari, la relazione primaria tra la frase e il verso. Del resto l’idea di monachesimo, con l’integrità che comporta, si può estendere dalla lingua alla poesia tutta di Scarabicchi, a partire dalla concezione stessa della scrittura poetica. Si svela così la vera natura di quel suo ossessivo levare e sfrondare la lingua, che in realtà non è un togliere, ma un restituire, che non è un di meno, ma un di più.