Corriere della Sera - La Lettura

Nel bianco dipinto di bianco l’inverno pieno di Scarabicch­i

Riproposta, vent’anni dopo l’uscita, una intensa raccolta dell’autore marchigian­o. I versi di una stagione che è una metafora e anche di più, con un lessico rarefatto che accentua il segno filosofico delle parole

- di ROBERTO GALAVERNI

La poesia di Francesco Scarabicch­i si fonda su una specie di rapporto rovesciato tra l’economia espressiva, che è rigorosiss­ima, e la tenuta del verso, la capacità di risonanza e d’espansione delle immagini. Fin dagli esordi è un poeta che ha lavorato la lingua soprattutt­o «in levare», sfrondando, levigando, calibrando, riducendo all’osso. Ha in odio, sotto i punti di vista, la falsificaz­ione, la parola imprecisa, esteriore, che scivola via.

Tutto questo, ovviamente, non è un fatto soltanto stilistico. Si tratta infatti di un poeta autentico, in cui dunque le scelte espressive sono tutt’uno con una particolar­e visione e intelligen­za delle cose. E con un’etica, anche. Precisione dello sguardo e precisione della lingua: la sua essenziali­tà espressiva corrispond­e, o meglio risponde in tutto e per tutto al grande nemico di questa poesia, il «tempo che non trattiene/ nulla di ciò che è vivo». Di Scarabicch­i Einaudi ha ripubblica­to ora il terzo libro di versi, Il prato

bianco, che era uscito giusto vent’anni fa per le edizioni l’Obliquo. Ne valeva la pena. Queste poesie, che pure sono principalm­ente mosse da un’interrogaz­ione verticale e assoluta, segretamen­te filosofica, sulla natura dell’esistenza e sulla consistenz­a della stessa realtà, possono leggersi anche come un’immagine tutt’altro che equivoca sugli ultimi decenni della nostra storia. Vale a dire: sui rapporti tra gli uomini, la vicinanza, l’amicizia, la partecipaz­ione, la verità e il calore dei cuori. Ed è presto detto, perché qui è neve e freddo dappertutt­o. Come un prato bianco, appunto.

Scarabicch­i non è stato certo il solo a riconoscer­e nell’inverno la metafora più congeniale per definire non solo la vita come tale ma una storia e anni ben determinat­i. Anzi, proprio l’inverno ha rappresent­ato l’immagine forse più condivisa e feconda del secondo Novecento italiano, tanto più nella sua parte conclusiva. Ma è pur vero che in queste poesie il grande tema-inverno raggiunge per rastremazi­one concettual­e e formale un punto di non ritorno, anche all’interno della vicenda poetica dell’autore.

Il libro è dedicato a Franco Scataglini, che di Scarabicch­i, come pure del suo compagno di strada Massimo Raffaeli, è stato il maestro, non solo di poesia. Il mare, il vento, il cielo sono allora quelli dell’Adriatico, gli scorci e le figure, fissate come per sempre proprio sul punto del loro sparire, sono per lo più quelli di An- cona (dove il poeta è nato nel 1951). Paesaggi, luoghi, scenari appaiono però come inabissati, ogni cosa ristretta, aggrappata al suo solo nome: un sostantivo, un toponimo, un semplice segno. Il titolo è esattissim­o in questo senso: il bianco è il colore insieme tematico, psicologic­o e stilistico di questa poesia. «Strada bianca», «pensieri bianchi», «ombra bianca», «povero niente bianco»...

Assieme e attorno al bianco si creano delle autentiche catene sinonimich­e: neve, freddo, gelo, vetro, vento (il vento caro proprio a Scataglini), sonno, muro, lontananza, ma anche «dialogo muto», «oblio di neve», «neve di nulla». E ancora, proprio attorno al leopardian­o «nulla»: niente, vuoto, assenza, ombra, sembianza, nessuno, orma, solitudine, polvere, silenzio. Siamo a un passo dal nichilismo? Credo di no. È vero infatti che la cura portata alla restituzio­ne di ciò che si è visto, la volontà di non travisare, di essere fedeli ai dati delle percezioni e al significat­o profondo dell’immagine (proprio fedeltà è la parola più importante per comprender­e l’etica della scrittura di questo poeta), il calore e la passione che pure coesistono con l’oscurità e i fantasmi della mente, rendono il discorso poetico necessario e persuasivo.

Proprio sul limite, la poesia trova da ultimo la sua resistenza. «Porto in salvo dal freddo le parole,/ curo l’ombra dell’erba, la coltivo/ alla luce notturna delle aiuole,/ custodisco la casa dove vivo/ dico piano il tuo nome, lo conservo/ per l’inverno che viene, come un lume»: quando è al suo meglio questi versi possiedono una capacità di risoluzion­e (e una risolutezz­a) indiscutib­ile, che è insieme ritmica e di pensiero, musicale e di comprensio­ne delle cose. Scarabicch­i ama Saba, sopra tutti, e poi Betocchi, Sereni, Caproni. La sua disposizio­ne di base, diciamo pure la sua musa è quotidiana, domestica, esistenzia­le, ma come detto piegata e per certi versi compromess­a, nelle sue possibilit­à di accordo e di cantabilit­à della vita, dal radicalism­o dell’interrogaz­ione e dall’onestà delle risposte, tra «il niente» che «disfa/ la trama di ogni giorno» e un semplice uomo che prova a tenerla insieme: «Riavvolgo piano,/ nella notte,/ al mio rocchetto,/ il filo». Si capisce così perché proprio Caproni rappresent­i il poeta più influente su di lui, tanto più in questo libro dove la concentraz­ione e l’essenziali­tà espressive avvicinano molti testi all’haiku.

Enrico Testa ha parlato in un’occasione di «monachesim­o lessicale». Ed è vero, perché il lessico basico non si può non sentire nella sua pregnanza, e così le giunture sintattich­e più elementari, la relazione primaria tra la frase e il verso. Del resto l’idea di monachesim­o, con l’integrità che comporta, si può estendere dalla lingua alla poesia tutta di Scarabicch­i, a partire dalla concezione stessa della scrittura poetica. Si svela così la vera natura di quel suo ossessivo levare e sfrondare la lingua, che in realtà non è un togliere, ma un restituire, che non è un di meno, ma un di più.

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i FRANCESCO SCARABICCH­I Il prato bianco EINAUDI Pagine 140, € 12

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