Corriere della Sera - La Lettura

Ho guardato Banksy dipingere per me

Lui è Agostino ’o pazzo, gran motociclis­ta e rigattiere di Napoli. L’altro è l’imprendibi­le writer che nel 2004 tracciò su un muro una Madonna: prima aveva fatto un Lenin ma non era piaciuto ad Agostino. Che oggi dice: «Solo l’arte salverà questa città»

- Da Napoli FULVIO BUFI

Quando si incontraro­no nessuno dei due sapeva chi fosse l’altro. Il giovane stava diventando famoso ma non era ancora un fenomeno mondiale, l’adulto era stato famoso molto tempo prima, quando aveva solo 18 anni, età da minorenne, a quei tempi, e comunque era stato un fenomeno soprattutt­o nella sua città. Quando si incontraro­no il giovane parlava solo inglese, l’adulto solo italiano, preferibil­mente napoletano, ma si capirono. Quando si incontraro­no nessuno dei due si accorse di quanta somiglianz­a ci fosse tra le loro vite. Di come l’adulto avesse fatto da ragazzo quello che il giovane stava facendo e avrebbe fatto per molti anni a venire: apparire, incantare, sparire. Lasciandos­i dietro, il primo, traiettori­e impossibil­i e sbaffi di sgommate sull’asfalto di cui si sarebbe raccontato per decenni; il secondo, murales che avrebbero trasformat­o facciate di palazzi, saracinesc­he, vetrate, ma anche camion e macchine da lavoro, in tele preziose. Due artisti della strada, ognuno a modo suo. Il napoletano si chiama Antonio, ma il nome che si porta dietro da quando aveva 18 anni è Agostino, Agostino ’o pazzo. L’inglese è Banksy.

Piazza Gerolamini è un quadrato che si allarga accanto a via Tribunali, il decumano superiore del centro antico di Napoli. Un lato è composto dalla chiesa monumental­e dedicata a San Filippo Neri, gli altri due sono palazzi privati. Sul muro mezzo scrostato di quello a sinistra c’è l’unica opera italiana di Banksy che forse è anche il suo unico compromess­o: è un’immagine della Vergine ispirata a una statua che è all’ingresso della chiesa di Santa Maria della Colonna, sull’altro lato di via Tribunali, con una pistola appena sopra la testa. Ma lì l’artista aveva fatto tutt’altro, aveva disegnato un ritratto di Lenin con il cappello con visiera e stella rossa. Poi lo ha coperto con la Madonna con la pistola.

Era l’ottobre del 2004, Damien Hirst era venuto a Napoli per allestire la mostra Il tormento e l’estasi, che si tenne al Mann, e con lui c’era un sacco di gente, tutti inglesi, «tutti molto irrequieti», ricorda Eduardo Cicelyn, che di quella mostra fu il curatore. Qualcuno lavorava ai preparativ­i al museo, molti se ne andavano in giro per la città. Banksy era uno di questi, e un giorno si fermò a piazza Gerolamini, davanti al palazzo dove abitava, e ancora oggi abita, Agostino.

Che a questo punto bisogna spiegare chi è. Si chiama Antonio Mellino, ha 63 anni, un negozio di rigattiere pieno all’inverosimi­le, e una storia che a Napoli conoscono tutti. A 18 anni Antonio poteva diventare un motociclis­ta profession­ista, oppure un acrobata delle moto. Perché su due ruote sapeva fare qualsiasi cosa: sapeva correre, sapeva impennare, sapeva scendere le scale, sapeva perfino stendersi sul sellino e governare il manubrio con i piedi. Aveva una Gilera 125 forse un po’ truccata, anzi sicurament­e truccata. Una sera d’agosto del 1970 in piazza del Plebiscito i carabinier­i lo fermarono per un controllo ma lui non accostò, tirò dritto perché stava andando dalla fidanzata, racconterà poi. Lo inseguiron­o, però non furono capaci di raggiunger­lo. Antonio si divertì, e volle riprovarci. Tra il 18 e il 23 agosto, tutte le notti la sua moto venne segnalata che sfrecciava per il centro della città. Per i vicoli dei Quartieri spagnoli, via Toledo, piazza Municipio, la galleria della Vittoria, il lungomare. Ogni notte un inseguimen­to a vuoto, ogni notte sempre più posti di blocco. Lui appariva e spariva e non furono mai capaci di fermarlo.

Era un mondo senza social, quello, ma la voce si sparse. Al motociclis­ta misterioso venne dato un soprannome: Ago

stino perché quelli erano i tempi di Giacomo Agostini, che in pista vinceva mondiali a ripetizion­e, e ’o pazzo perché uno che correva così doveva essere per forza pazzo. Ma non scemo. Perché dopo quelle sei notti capì che prima o poi lo avrebbero beccato e smise di sfidare polizia e carabinier­i. Ormai, però, in città lo vedevano pure se non c’era. Era diventato un mito e in strada si radunavano migliaia di persone per applaudirl­o e fare il tifo. Era diventato, suo malgrado, il simbolo di una ribellione contro le autorità, un po’ seria e un po’ a sfottere, che esplose in una delle notti in cui lui già non usciva più. Troppa folla per strada, intervenne la Celere (allora si chiamava ancora così), furono lanciati sassi e sparati lacrimogen­i. Finì con 56 feriti, 59 arrestati e 232 fermati, riferiscon­o le cronache dell’epoca.

Anche Agostino fu poi arrestato e processato, ma non era un criminale, era so- lo un ragazzo terribile. Che crescendo è diventato un uomo appassiona­to di Napoli e di arte. Fu dal suo deposito che, nel 1996, Jannis Kounellis pescò parte del materiale necessario per la storica installazi­one in piazza del Plebiscito. Ed è stato lui, oggi, a far costruire una teca di vetro e ferro per preservare l’opera di Banksy in piazza Gerolamini. «Lo faccio per Napoli», spiega. «L’arte e la cultura sono l’unico patrimonio che abbiamo, ma è un patrimonio immenso, e potrebbe servire a dare lavoro ai ragazzi e togliere dalla strada anche quelli che finiscono per sparare o spacciare, e sappiamo bene oggi quanti ce ne sono. L’arte non va abbandonat­a, come qui succede spesso: va protetta, come ho fatto con il disegno di Banksy».

Però lui e l’artista inglese non andarono subito d’accordo. «Un giorno lo vidi che si guardava intorno, guardava quel muro dove io avevo messo una cappella votiva, e mi avvicinai per capire che cosa volesse. Ricordo che indossava un cap- pellino verde militare con la visiera e un giaccone pure verde. Era un po’ più basso di me, circa 175 centimetri, magro, non portava la barba. Mi spiegò che voleva fare un disegno e gli dissi vabbé. Quel muro è proprietà mia, gli diedi il permesso perché mi sembrava che ci tenesse».

Il giorno successivo Banksy tornò con tutto l’occorrente per lo stencil e si mise al lavoro. «Non gli avevo nemmeno chiesto che disegno volesse fare, mi fidai, però alla fine non mi piacque. Aveva fatto Lenin».

La scena, così come la racconta Agostino, deve essere stata divertente. «Non c’entra la politica, è che proprio non mi piaceva. Lo feci vedere pure a mia moglie e lei era d’accordo: “Che ce n’avimma fa’?” mi disse». Banksy era stato bocciato. «Lo chiamai, gli dissi: “Togli ’sto disegno da qua, cancellalo”. Lui voleva discutere ma io no. “Se non lo cancelli tu, lo cancello io”, gli spiegai, “quindi vedi che vuoi fare”. Capì». Non c’era molta scelta, quel ritratto non avrebbe avuto vita lunga. «Cominciò a guardarsi intorno. Si girava, si rigirava. Alla fine disse che sarebbe tornato a cancellare quel disegno e a farne un altro». Guardando verso la chiesa di Santa Maria della Colonna (oggi in restauro e coperta da un’impalcatur­a), l’artista aveva scelto il soggetto: «Disegnò la Madonna ma poi ci mise quella pistola sopra la testa. “E che significa?”, gli chiesi. Uè, quello fece ’o pizzo a riso (sorrise,

ndr) e se ne andò. Non me lo ha voluto dire».

Da allora i due non si sono più incontrati, ma Antonio Mellino è forse l’unico che ha parlato con Banksy sapendo che fosse Banksy. Se ne rende conto? «Io? E lui, allora? Banksy si rende conto che ha parlato con Agostino ’o pazzo?».

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