Corriere della Sera - La Lettura
Bellocchio, la fine della rivoluzione
Il regista sconfina per la terza volta (dopo «Rigoletto» e «Pagliacci») e porta in scena «Andrea Chénier». «Siamo nella Francia del Terrore, nessun paragone con le cadute dei 5 Stelle a Roma per favore. Non amo le trovate attualizzanti»
«Acc ettandoque sto incarico, a due mesi dall’inizio delle prove mi chiedo: che cavolo ho fatto?». Marco Bellocchio debutta al Teatro dell’Opera di Roma, firmando la regia dell’Andrea Chénier di Umberto Giordano, libretto di Luigi Illica, in scena dal 21 aprile al 2 maggio al Costanzi con Roberto Abbado sul podio. Ma non è la prima volta che il regista cinematografico sconfina nella lirica: «In realtà è la terza — precisa —. Più di dieci anni fa ho fatto un Rigoletto, poi ne ho diretto un film con Placido Domingo che affrontava per la prima volta questo ruolo. Più recentemente, Pagliacci di Leoncavallo. Ogni volta che mi accosto al repertorio operistico lo faccio sempre con molta prudenza e umiltà, perché non è il mio normale terreno d’azione, ma anche con grande curiosità. E mi vengono in mente i ricordi di quando ero piccolo e mia madre ci faceva ascoltare i suoi dischi in vinile con le arie più famose cantate da personaggi come Beniamino Gigli... Oppure la divertente aneddotica su certe storiche rappresentazioni, dove magari il soprano che impersonava Desdemona nell’Otello di Verdi aveva sì una bellissima voce, ma pesava una tonnellata e c’era il rischio che rompesse la poltrona su cui doveva sedersi...».
Sta volta non si correrà il pericolo. Nello spettacolo, co prodotto dal Teatro dell’ Opera con La Fenice di Venezia, è il soprano Maria J osé Siria vestirei pan nidi Maddalena di Coigny, mentre Gregory Kunde è il poeta rivoluzionario del titolo, Roberto Frontali Carlo Gérard, Natascha Petrinsky la Contessa di Coigny. «Io amo l’opera lirica ma ho poca esperienza — ammette Bellocchio —. Quando vado sul set di un film, mi sento preparato, so a cosa vado incontro. Ben diversa la questione per il teatro, dove devo trasformare le mie immagini mentali in quelle concrete, cercando di renderle credibili, verosimili. La mia preparazione, in questo caso, consiste innanzitutto nell’imparare a memoria il libretto: per fortuna l’Andrea Chénier non è lunghissimo, supera di poco le due ore di messinscena. Non so leggere la musica, vado a orecchio, quindi devo stabilire un rapporto stretto con direttore d’orchestra, cantanti, maestro del coro, comparse... tutti hanno più esperienza di me».
Nel cinema il regista è il vero autore del film: «Certo! Sono io che decido la storia, scrivo la sceneggiatura, faccio i provini per gli attori, stabilisco le inquadrature e poi c’è il montaggio delle scene... Sul set tutti, dal costumista allo scenografo, dal protagonista all’ultima comparsa vengono da me a chiedermi “che faccio?”. Nel melodramma il vero conduttore è chi dirige l’orchestra e io me la cavo solo se trovo una buona intesa strategica con lui. Mi posso inserire nel contesto, cercando di sfruttare qualunque anfratto per infilare le mie idee sulla rappresentazione, ma senza fare il matto e dire io voglio fare questo o quello... Non posso neanche scegliere i cantanti perché non li conosco! Ma intendiamoci — avverte — il mio non è un atteggiamento rinunciatario, non mi sento schiacciato, bensì è un moto di rispetto, è il desiderio di mettermi al servizio di un progetto corale».
Bellocchio non è certo il primo regista di cinema che si presta all’opera. «Il più grande fu il mitico Luchino Visconti, capace di mediare tra i due linguaggi. Ma mi risulta che anche Mario Martone ha fatto di recente spettacoli belli. Il mio apporto invece è occasionale — sottolinea —. L’opera di Giordano-Illica mi è stata proposta e ho accettato anche perché narra una storia che mi piace, un tema in- teressante. Non prendetela per vezzo nostalgico, ma il racconto di una rivoluzione, quella francese, che proprio nel momento in cui conquista il potere, e potrebbe quindi finalmente realizzare i suoi sogni, diventa disumana e divora i suoi figli, mi affascina. Il protagonista, realmente esistito, è un rivoluzionario che entra in conflitto con i vertici del movimento e finisce per diventare la vittima del Terrore giacobino: è un dramma privato sullo sfondo della degenerazione dei principi sani della stessa rivoluzione, liberté, egalité, fraternité. Un po’ il dilemma — aggiunge con una punta sarcastica — che accade a tutte le rivoluzioni e che ora, mi pare, si stia ponendo al Movimento 5 stelle. È un mistero come stiano scivolando sulla buccia di banana di Roma, forse perché la città ha radici corrotte». Un’osservazione che potrebbe preludere all’intento di attualizzare l’eroe rivoluzionario d’oltralpe? Un potenziale grillino?
Ride: «No! Per carità! Non amo le trovate attualizzanti. È molto difficile imbroccarne una che funzioni e soprattutto nell’opera lirica sono un rischio». Perché? «Perché lì detta legge la musica e allora occorre che l’idea riesca a penetrare nel tessuto del canto. Se diventa una sovrastruttura, lo spettatore si distrae, segue solo il canto e si dimentica della tua lettura scenica». Eppure negli ultimi anni anche alla lirica sono approdati molti registi trasgressivi, che hanno stravolto le trame dei libretti. Per citarne uno, il «contestato» Damiano Michieletto... «Ecco, appunto, bizzarrie — interrompe Bellocchio — magari affascinanti, ma bizzarrie che, per chi ama il teatro del melodramma, non so se reggono. Intendiamoci, l’ attualizzazione non è proibita ... io stesso ambientai Pagliacci in un manicomio criminale, ma occorre avere la forza e la lucidità di condurla fino in fondo senza trascurare il corpo della musica. Il tessuto musicale è un binario molto preciso, non puoi deragliare. Lo spartito non ti consente di stravolgerlo più di tanto, le note sono quelle! Certi esperimenti — riflette il regista — sono più facili con opere meno note. Ma con La Traviata hai alle spalle una tale eredità ingombrante, che mi pare un vero azzardo. Nel mio Andrea Chénier la parola d’ordine è sobrietà».
Paura dei fischi? «Bè, io qualche contestazione e qualche fischio li ho subiti, sicuramente con I pugni in tasca: ricordo che qualcuno urlava “vergogna!”. Ma avevo poco più di vent’anni e non mi sconvolse. Tuttavia i fischi e persino una critica negativa sono utili, importanti: a volte colgo non elsegno, bisogna tenerne conto. Tanti anni fa, noi cinematografari leggevamo con ansia i commenti sul giornale la mattina dopo un nostro debutto... Ma quando in un festival viene proiettato un mio film, la cosa che mi preoccupa di più è avvertire la freddezza in sala, l’applauso di cortesia, che non è sincero: ti sforzi allora di interpretare il “corpo” dell’applauso. Nel cinema il regista è il principale responsabile, dunque il maggiore imputato di un prodotto scadente, nell’opera sento di condividere la responsabilità con molti altri... e la cosa mi conforta — ridacchia —. Sarei uno sciocco se pensassi di impadronirmi della messinscena dell’Andrea Chénier e non lo dico per ridimensionare i miei oneri, ma è un dato di fatto. Allora, qualunque cosa accada alla prima, l’accetterò con serenità. Salirò con tutti gli altri in palcoscenico e, se piovono fischi dal loggione, me li tengo».