Corriere della Sera - La Lettura

La gioia di guardare cielo il

L’opera di Orhan Pamuk e Grazia Toderi, il Nobel che ama l’arte e l’artista che ama le stelle

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Hanno collaborat­o al progetto per anni, si sono inseguiti, apprezzati, rifiutati. Hanno chiacchier­ato e sono stati in silenzio. Ora il loro lavoro, finalmente concluso, sarà esposto al Mart di Rovereto da aprile: una sorta di partitura in diversi atti e diverse videoinsta­llazioni. Sullo sfondo di una Istanbul notturna, «città-eccetera», le luci si trasforman­o in costellazi­oni mentre una doppia proiezione evoca l’amore tra Fusun e Kemal, eroi del «Museo dell’innocenza». Qui ne parlano in una conversazi­one a distanza

Q uella che segue non è un’intervista, ma una conversazi­one. Ne sono protagonis­ti un grande romanziere turco, Premio Nobel perla letteratur­a nel 2006, Orhan Pamuk, e una sofisticat­a artista italiana, Grazia Toderi. Qualche mese fa abbiamo proposto loro di parlare di Words and Stars, il progetto cui si stanno dedicando dal 2013, tra slanci, pause e continui ripensamen­ti. Hanno accettato il nostro invito con entusiasmo e generosità. Rispondend­o alle nostre domande non a voce ma per iscritto. Ognuno per conto proprio, in luoghi e con tempi differenti. Perciò questa conversazi­one ha un andamento differente da ogni conversazi­one: più che un dialogo tra persone, un dialogo, a distanza, tra idee. Incomincia, lungamente, Orhan Pamuk.

Signor Pamuk, vorrei ripercorre­re le ragioni fondamenta­li del suo dialogo con l’arte. Muovendo dalla centralità che, sin dai titoli, assegna ai colori in molti suoi libri («Il castello bianco», «Il mio nome è rosso», «Il libro nero», «Altri colori», «La donna dai capelli rossi»). OR HANPAMUK—Nonl ode finirei un dialogo. È qualcosa di più intenso e di più radicale. Come ho scritto in Istanbul, trai7 e i 22 anni sarei voluto diventare un artista. In effetti,

Istanbul è un libro sulla mia Istanbul durante gli anni 50 e 60 e serve anche a spiegare perché non sono riuscito a fare il pittore. Eppure, il motivo vero non mi è chiaro. Sono cresciuto per diventare un artista: c’era una rotella fuori

posto nella mia testa. Dopo aver deciso di fare il romanziere, mi sono dedicato poco al disegno e alla pittura. Me lo sono autoimpost­o. Ma dieci anni fa sono ritornato a «fare arte». Il Museo dell’innocenza è stato il mio primo progetto. Intreccia la letteratur­a con l’arte concettual­e.

Nelle «Norton Lectures» tenute nel 20092010 all’Università di Harvard (poi raccolte in «Romanzieri ingenui e sentimenta­li», Einaudi), ha sottolinea­to come, per lei, scrivere un romanzo significhi innanzitut­to dipingere con le parole, visualizza­re immagini, descrivere scene. «Quando scrivo un libro, parola dopo parola (…), il primo passo è sempre la composizio­ne di un quadro (…) nella mia mente», ha osservato. È profonda la dimensione pittorica sottesa ai suoi romanzi.

ORHAN PAMUK — Io sostengo che la narrativa, l’arte del romanzo, sia basata su un certo tipo di comunicazi­one. Scriviamo romanzi per trasmetter­e immagini drammatich­e scaturite dalla nostra mente nella fantasia del lettore. Non dimentichi­amo che pittura e poesia, tradiziona­lmente, sono arti sorelle. Alla Columbia University di New York, dove insegno, ho tenuto un corso sulla storia della mescolanza tra pittura e letteratur­a dal mito della caverna di Platone fino alle storie di Borges. Mi considero uno scrittore visivo: cerco di rivolgermi ai lettori prima di tutto attraverso le immagini. Come Tolstoj, come Proust, come Na-

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