Corriere della Sera - La Lettura
La gioiosa rivincita del quotidiano sulla tradizione letteraria
La parola felicità èa disagio nel dialetto, come tutti gli astratti. Il che non vuol dire che nella tradizione dialettale manchi la felicità. Solo che sceglie altre strade per manifestarsi. Come accade all’amore. Quanti dialetti potrebbero tradurre alla lettera ti amo? Non è un caso che l’opera di Ruzzante sia percorsa da un sarcastico controcanto intonato proprio sull’amore. Ma, se la trattatistica illustre era giocata tutta sulla spiritualizzazione delle quaestiones de amore,
Beolco si appellava invece allo snaturàl, all’istinto, al bisogno, alla necessità quotidiana, dove amore vuol dire sicurezza, protezione, «dinari», cibo. Allo stesso modo nella risoluta assunzione di una prospettiva dal basso, indossando la sua deforme maschera comica, in tempi di fame nera la letteratura in dialetto ha rappresentato la felicità nel favoloso paese di Bengodi, nella terra di Cuccagna dove, secondo il proverbio popolare, «se ghe liga i sces (le siepi) cont el cervellaa», nei «clara (…) regna lasagnarum» della Zanitonella di Folengo in cui danzano le grasse Camene. Inconfondibile l’addio di Meneghino a Milano nel III atto del Barone di
Birbanza di Carlo Maria Maggi. Per il popolano non c’è spazio per la malinconia del congedo dalla patria (tipo Addio monti…), se non nelle forme di un grottesco rimpianto alimentare per le specialità gastronomiche delle sue osterie. Ma c’è un’altra allegria, cui la poesia in dialetto ha prestato la propria voce ed è quella di una lingua fragrante di vita, risuonante delle festose urla dei campielli goldoniani e della «scoeura de lengua del Verzee», degli improperi di smargiassi e vaiasse del quartiere Puorto, della fosca
hilaritas di Trastevere. La sua fermentante ricchezza è una gioiosa rivincita del quotidiano sull’anemica lingua toscaneggiante della tradizione letteraria, coltivata per secoli nelle teche della purezza cruscante.