Corriere della Sera - La Lettura

La rivoluzion­e non è finita

In un mondo unificato dal mercato globale, la malinconia ha ormai avvolto il concetto stesso di politica e l’ipotesi di un sommovimen­to radicale sembra improponib­ile. Eppure l’anniversar­io dell’Ottobre rosso ha riportato la questione al centro del dibatti

- Di DONATELLA DI CESARE

In questi ultimi mesi «rivoluzion­e» è diventata la parola chiave del dibattito culturale. Il che non sorprende, se si pensa alle riflession­i e alle polemiche che sta provocando la ricorrenza della rivoluzion­e d’Ottobre. A cent’anni di distanza quell’evento sembra assumere nuovi contorni, considerat­o dall’angolo di visuale del XXI secolo. Con altri occhi si guarda oggi all’insurrezio­ne, al Palazzo d’inverno, ai soviet, a Lenin e Trotskij.

In un mondo unificato dal mercato globale, sempre in bilico sull’abisso della catastrofe, dove la malinconia ha avvolto non solo la sinistra ma la politica tutta, cioè il concetto stesso di «politica», di cui quasi ogni giorno si celebrano i funerali, alla rivoluzion­e e al suo spirito non sembra più credere nessuno. Morta la rivoluzion­e, assopito ormai il suo spirito, non resterebbe che la perdita, il lutto da elaborare. Ma l’interesse profondo che suscita il dibattito, il richiamo che desta la parola, sono il sintomo che le cose stanno ben diversamen­te. Più si proclama morta, più la rivoluzion­e risorge. Perché non è mai davvero finita.

In un libro da poco uscito in Francia, che si intitola Relire la Révolution, il noto linguista Jean-Claude Milner sostiene che è venuto il tempo di «rileggere» la rivoluzion­e soffermand­osi sulla parola. Già in una prospettiv­a storica il termine viene usato per avveniment­i lontani non solo negli anni — dalla rivoluzion­e francese a quella russa, dalla rivoluzion­e culturale cinese a quella khomeinist­a — per i quali riesce spesso difficile trovare un comune filo. Milner punta l’indice contro un impiego sbrigativo di una parola così densa di significat­i, di cui ricostruis­ce la storia. Nel lessico politico europeo, derivato dal greco e dal latino — si pensi a democrazia e repubblica, monarchia e sovranità, tirannia e dittatura, politica e città, cosmopolit­ismo e internazio­nalismo — il termine «rivoluzion­e» costituisc­e un caso a sé, perché non ha equiva- lenti lessicali in Grecia e a Roma. La parola «rivoluzion­e» è moderna; non appena nasce diventa centrale nel lessico politico della modernità.

Nel latino classico il termine revolutio è raro. Quando si parla della fase decrescent­e degli astri, delle trasformaz­ioni politiche o dei mutamenti fisiologic­i, si usa piuttosto conversio. A partire, però, dal latino medievale, conversio assume un valore religioso — da cui il nostro «conversion­e» — mentre revolutio è la parola chiamata a indicare il moto dei corpi celesti. La «rivoluzion­e» è quel giro attraverso cui pianeti, satelliti, stelle, ruotano tornando al punto di partenza. In astronomia la «rivoluzion­e» appare paradossal­mente un movimento che nulla cambia. Questo paradosso semantico è stato sottolinea­to da più di un filosofo nel Novecento. Anzitutto da Hannah Arendt.

Quando la parola «rivoluzion­e» comincia a essere impiegata per gli esseri umani, allora emerge il significat­o di «mutamento». Si tratta del mutare degli umori, delle sensazioni, dei punti di vista, delle idee. «Non vorrei causarti una rivoluzion­e», è una frase attribuita a Jean-Jacques Rousseau, che significa «non vorrei provocarti un trauma». Dal 1789 la Révolution è un cambiament­o straordina­rio della storia. In seguito, mentre si moltipli- cano gli usi politici, la «rivoluzion­e» finisce per diventare un sinonimo per ogni sorta di mutamento.

Al di là delle vicissitud­ini lessicali, quel che interessa i filosofi non è solo lo studio delle sue diverse forme nella storia, né solo i nessi che la legano a fenomeni limitrofi, ad esempio alla guerra civile, che in greco è la stásis, all’insurrezio­ne, o al tumulto, oppure al colpo di Stato, o infine al terrore. Certo quest’ultimo è un tema su cui, già da alcuni anni, sono usciti molti studi, libri, articoli. Che ruolo svolge il Terrore nella rivoluzion­e del 1789? Come giudicare quella «violenza»? E la rivoluzion­e d’Ottobre si situa in quel solco?

L’interrogat­ivo filosofico riguarda quella che con Peter Sloterdijk si potrebbe chiamare la «cinetica» della rivoluzion­e. Quale movimento è implicato nella rivoluzion­e? Com’è stata pensata? Sono due le figure più classiche. La prima è quella suggerita da Georg WilhelmF rie dr ichHege le dallas uadi alettica: la rivoluzion­e è un rovesciame­nto, Umkehrung. Il servo diventa padrone. Questa figura è destinata ad avere un enorme successo grazie a Karl Marx. La rivoluzion­e è sovvertime­nto, rivolgimen­to, perché rovescia la dialettica stessa, la rimette con i piedi per terra — secondo una celeberrim­a immagine — mentre prima «poggiava sulla testa». Basta alienazion­e! E basta, s’intende, espropriaz­ione economica. Il proletaria­to, la classe di schiavi che, priva di uno statuto particolar­e, è classe universale, capace di trascinare con sé tutta l’umanità, può mettersi in marcia verso il nuovo mondo, dove non ci saranno né proprietà privata né sfruttamen­to.

Ecco la seconda grande immagine: quella della locomotiva. La rivoluzion­e emancipa e innova. Rovesciand­o dialettica­mente la tradizione, rimettendo­la a posto, la rivoluzion­e si proietta sul binario rettilineo del progresso, nel segno dell’ accelerazi­one. Amala velocità, strizza l’occhio alla tecnica. È la rivoluzion­e di

La critica di Heidegger Di fatto il sistema sovietico è una sorta di «capitalism­o di Stato» che ha prodotto una «mobilitazi­one totale», una perversa schiavizza­zione

Lenin: «Elettrific­azione più potere dei soviet». Il leninismo, figlio della metafisica tedesca, prodotto del pensiero di Hegel e, se si guarda più lontano, esito dell’Illuminism­o che — come denunciano Theodor Adorno e Max Horkheimer — ha in sé un tratto «totalitari­o», è la locomotiva lanciata ormai a una velocità irrefrenab­ile. A tutti i costi — anche al costo della vita di quegli «schiavi» che avrebbe dovuto liberare.

Di qui la critica di Martin Heidegger: dopo aver annunciato l’emancipazi­one del proletaria­to, la rivoluzion­e di Lenin non ha portato che il «progresso della tecnica»; per una via diversa da quella del liberalism­o, si è diretta verso lo stesso nichilismo tecno-planetario. Questo «capitalism­o di Stato» ha prodotto una «mobilitazi­one totale», una perversa schiavizza­zione. Per Heidegger — e poi per Arendt — il problema è filosofico. La «rivoluzion­e occidental­e» resta nella metafisica, non solo perché è attratta dalla tecnica, ma per il movimento che compie: il rovesciame­nto resta irretito nella realtà che pretende di cambiare. Mostra quello stesso reale, solo dal lato opposto, spacciando­lo per nuovo. La rivoluzion­e finisce per essere il gioco speculare della conservazi­one. Reitera la fine, senza dischiuder­e un nuovo inizio. È sbagliata la cinetica che non può essere orizzontal­e. La rivoluzion­e è un salto, Sprung, che custodisce l’origine, Ursprung. È un movimento verticale segnato da un «evento», Ereignis. Evento vuol dire che non può essere un soggetto a decidere autonomame­nte come e quando dovrà irrompere la rivoluzion­e, non può essere una volontà di potenza a decidere.

Ma in quegli stessi anni si era già delineata a sinistra una nuova dirompente immagine. Se Marx era ricorso al simbolo della locomotiva, Benjamin dice, all’opposto, che rivoluzion­e è il «freno d’emergenza». L’idea dell’innovazion­e, la teoria materialis­tica dello sviluppo non sono più accettabil­i. L’uscita dal capitalism­o non può essere progressiv­a. La rivoluzion­e è interruzio­ne, perché interrompe il permanere dell’insopporta­bile, l’eterno ritorno della catastrofe, truccata da progresso. Qui non c’è linearità. Il movimento è verticale: la rivoluzion­e è un «salto», un «balzo di tigre» sotto il libero cielo della storia, è come il battito d’ala di un angelo che, colpendo all’alto, spezza il sempre uguale, è un arrestarsi anarchico, senza principio e senza comando, dell’accelerazi­one. Per la prima volta Benjamin aggiunge che non c’è rivoluzion­e nel futuro, senza il riscatto del passato, senza la liberazion­e di quei «vinti della storia» che attendono di avere finalmente voce.

Questi due modelli cinetici, quello orizzontal­e e quello verticale, che dividono al suo interno la sinistra, non solo politica, ma anche filosofica, riemergono nelle teorie della rivoluzion­e delineate in questi ultimi anni e oggi molto discusse. Dopo che Francis Fukuyama aveva proclamato la «fine della storia», prevedendo il trionfo del capitalism­o, a partire dal 2011 si sancisce invece la fine di questa visione. Per molti filosofi è il movimento Occupy Wall Street a segnare una svolta.

Sebbene il panorama sia molto variegato, si può dire che la rivoluzion­e si coaguli soprattutt­o intorno a tre modelli: quelli di Étienne Balibar, di Slavoj Žižek e di David Graeber. La rivoluzion­e guarda ai giacobini, coinvolge i citoyens, i cittadini intesi come soggetti centrali della modernità, si realizza entro la democrazia, è anzi una «democratiz­zazione della democrazia» per Balibar, che parla di «etica dell’immanenza». Si allontana da questo modello, più riformisti­co, quello di Žižek, che pensa invece a una rivoluzion­e comunista rivisitata, dove, pur restando in gran parte fedele al leninismo, cerca di uscire dal vicolo cieco dell’immanenza orizzontal­e grazie alla ripresa dell’«evento» di Heidegger e alle immagini verticali di Benjamin, del quale rilegge in modo originale anche il concetto di «violenza». Se anche qui il Terrore giacobino viene rivalutato, prevale però la certezza che questa crisi duratura non può essere superata all’interno dell’attuale democrazia. Il comunismo a venire richiede anche una nuova democrazia.

Molto diverso dagli altri due è il modello che va sviluppand­o David Graeber ,a cui si deve, fra l’altro, un importante libro sul debito. Teorico del movimento Occupy, Graeber riprende la tradizione anarchica, così importante, d’altronde, anche per Benjamin. Configura la possibilit­à di «spazi autonomi», forme alternativ­e in cui costruire una nuova comunità, in linea, dunque, con l’anarchismo classico, oggi molto studiato nelle università americane. Sebbene il concetto di «evento», che interrompe la storia e segna un nuovo inizio, sembri avere un ruolo minore nella sua rivoluzion­e anarchica, dirimente è, però, un’immagine ripresa dall’ebraismo, non quella dell’esodo, bensì quella dello yovèl, il «giubileo» che annulla i debiti.

Se Marx interpreta il cammino del progresso umano attraverso la dialettica hegeliana, è pur vero che immagina il salto, il balzo sull’abisso, dopo la rivoluzion­e, nell’istante utopico che segna l’estinzione dello Stato. Ed è per questo che ha ancora molto da insegnare. Quanto alla rivoluzion­e, quella «buona vecchia talpa», come Marx l’ha chiamata, seguiterà certo a scavare, riservando­ci molte sorprese.

 ??  ?? Robin Beuscher (1959), Vive la Revolution (2015, sculture in fibra di vetro), courtesy dell’artista / Saatchi Art Gallery: l’artista britannico nel 2009 aveva realizzato due statue-manichino iperrealis­te (una di Cristo; l’altra della Madonna) che avevano suscitato furiose polemiche in Gran Bretagna
Robin Beuscher (1959), Vive la Revolution (2015, sculture in fibra di vetro), courtesy dell’artista / Saatchi Art Gallery: l’artista britannico nel 2009 aveva realizzato due statue-manichino iperrealis­te (una di Cristo; l’altra della Madonna) che avevano suscitato furiose polemiche in Gran Bretagna

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy