Corriere della Sera - La Lettura
È sempre carnevale I riti della trasgressione
Feste Il 28 febbraio è martedì grasso, ultimo giorno (per la liturgia romana) prima dell’inizio della Quaresima. Viaggio storico e letterario alle radici di una celebrazione basata su rovesciamento e trasgressione, ma ormai normalizzata Franco Cardini «Per i pagani era un momento di tripudio, quella che gli antropologi chiamano orgia, cioè distruzione di beni: grandi mangiate e grandi bevute»
Dallo Zanni a Dario Fo, passando per Totò, la maschera ha subito nel tempo una lunga evoluzione, ha fertilizzato e contaminato la letteratura, mentre il carnevale come oggi lo conosciamo, festa normalizzata e spesso organizzata dalle istituzioni, affonda in un mondo antico e pagano che porta con sé un’idea di sovversione. È un rovesciamento non privo di un elemento «sinistro» e anche «satanico», che, sottolinea René Guénon in Simboli della scienza sacra (Adelphi), costituisce proprio l’elemento che «piace al volgo ed eccita la sua allegria». Il critico russo Michail Bachtin, ne L’opera di Rabelais e la cultura popolare, analizza la matrice del riso nell’autore di Gargantua e Pantagruele, notando come lo scrittore elevi a dignità letteraria una visione bassa del mondo, arricchendo una tradizione definita appunto «carnevalesca», grottesca, materiale, corporea, in antitesi con la cultura ufficiale delle classi dominanti. Ma il tema della maschera è stato anche uno dei grandi filoni delle arti novecentesche.
«Il carnevale quale oggi viene celebrato è molto diverso da quello delle origini», spiega Siro Ferrone, autore di numerosi saggi sul teatro del Cinquecento, tra cui La Commedia dell’arte. Attrici e attori italiani in Europa (Einaudi). «Era il tempo della infrazione, della sregolatezza anche violenta e prevedeva lo scatenamento di tutte le forme di libertà. Potevano esserci sassaiole, anche con morti; beffe crudeli spesso a discapito dei vecchi e delle donne; oltraggi al comune senso del pudore». Le origini sono nel mondo greco-romano, come spiega lo storico medievista Franco Cardini, autore, tra l’altro, de I giorni del sacro. I riti e le feste del calendario dall’antichità a oggi (Utet). Bisogna risalire alle manifestazioni medievali della fine dell’anno, «le libertates decembris, una serie di riti di purificazione e di esorcismo per tenere a bada le forze infere, il ritorno dei morti e via dicendo — dice Cardini —. Giorni divertenti, ma anche violenti, durante i quali si giocava sul travestimento e sulle sostituzioni. Tutto questo appartiene soprattutto al mondo greco-romano, ma è collegato a riti che si svolgono anche altrove, come Halloween che ha un’origine celtica». Il carnevale si innesta dunque su una serie di feste, sovrapponendo i calendari. Continua Cardini: «L’anno vecchio termina con San Silvestro, mentre l’anno agricolo si conclude con la fine dell’inverno. Per i pagani era un momento di festa, di tripudio, con quello che gli antropologi definiscono orgia, letteralmente “distruzione di beni”: grandi mangiate e grandi bevute perché bisogna finire le scorte invernali. Le libertates vengono abolite dal cristianesimo: dicembre è un mese sacro perché c’è Natale. Ma il Natale è a sua volta la sostituzione di una vecchia festa pagana, la festa del Sol invictus, del 25 dicembre. Quindi queste feste dell’anno agrario si trasferiscono alla fine dell’inverno, quando però i cristiani si trovano davanti anche alla quaresima che è tempo di penitenza». Insomma, Carnem valere, cioè carne addio. «In realtà — spiega Cardini — per gli studiosi l’etimologia giusta è riferita alle feste pagane che si facevano a Roma in onore di Iside, il 6 gennaio, durante le quali si esibiva la nave su cui Iside attraversa il mondo dei morti per cercare Osiride. Il Currus navalis era una nave con le ruote, un carro di carnevale se vogliamo».
Con il tempo la natura del carnevale cambia. «Una prima stretta si ha a cominciare dal XIII secolo quando la Chiesa si preoccupa del dilagare di una nuova ondata di eresie e si instaurano anche i tribunali inquisitoriali — spiega Cardini —. Si teme che le tradizioni folcloriche nascondano l’eresia o addirittura la volontà di cambiare l’equilibrio politico. Dopo la Riforma subentra una convergente persecuzione, sia nel mondo cattolico che in quello protestante». «Nel corso del Settecento — aggiunge Ferrone — sono gli stessi feudatari a prendere il controllo della festa, usandola per permettere al popolo di sfogare gli istinti mantenendone il controllo». Con l’avvento dell’Unità d’Italia e la nascita della borghesia il carnevale non è più visto come una manifestazione necessaria al popolo ma viene trasformato in un genere artistico: «Si fanno maschere, carri che coinvolgono scenografi, artisti, artigiani».
Ma c’è un altro luogo in cui la maschera prospera e vive tutto l’anno: il teatro. Con la Commedia dell’arte, nel Cinquecento, nasce il teatro fatto dai professionisti. «I comici della Commedia dell’arte per primi si sono posti il problema di guadagnare recitando — spiega Nicola Fano, autore del saggio Le maschere italiane. Le origini della commedia all’italiana (il Mulino) —. Dovevano raccontare la vita di chi li andava a vedere: per questo esprimevano la concretezza del quotidiano». Ferrone mette in luce un elemento di grande modernità: «Le attrici possono essere considerate precorritrici del femminismo perché affermano il diritto della donna a guadagnarsi la vita recitando, vendendo l’ immagine. Anche su di loro si abbatte la scure del cristianesimo, che le considera prostitute».
Nel corso degli anni la maschera cambia e ciò che viene rappresentato è anche la fine del carnevale. «Opere come Le maschere di Mascagni o I pagliacci di Leoncavallo sono la rappresentazione del tramonto. Qualcosa che poi, più recentemente, si ritrova anche nel cinema, con Chaplin, per esempio — continua Ferrone —. Anche il clown, che è parte della cultura americana, è la rappresentazione della decadenza. Il francese Pierrot, erede di Arlecchino,