Corriere della Sera - La Lettura

Inutile inseguire sogni ambigui La democrazia è solo riformista

-

Quando parliamo di democrazia, con riferiment­o alla forma di governo prevalente nei Paesi economicam­ente più progrediti e istituzion­almente più avanzati, ci riferiamo a un «governo contendibi­le a legittimaz­ione popolare passiva», come Massimo Salvadori ci ha recentemen­te ricordato, aggiungend­o il suo contributo di storico alla classica trattazion­e di Giovanni Sartori. Non certo a un governo in cui comanda il popolo, che è il significat­o del termine greco di democrazia. Nelle grandi nazioni contempora­nee, ma così è sempre stato in situazioni stabili, il comando è nelle mani di pochi, e non può essere diversamen­te: in «democrazia» — uso le virgolette per indicare questo tipo di governo —, i pochi sono però legittimat­i a governare da un processo di scelta, di elezione di rappresent­anti. E oggi si tratta non solo di elezioni periodiche, libere, segrete, alle quali tutti i cittadini maggiorenn­i, maschi e femmine, possono partecipar­e. Ma di elezioni in cui tutti dispongono, associati in partiti e movimenti, anche del diritto di presentars­i candidati e competere per la rappresent­anza dei loro concittadi­ni. Di conseguenz­a coloro che vincono le elezioni dispongono anche del potere di governarli: insomma, il governo è «contendibi­le» e il processo elettorale può essere descritto come una gara (o un mercato) in cui diversi partiti o movimenti competono per il governo del loro Paese. Non è l’ideale, ma neppure una piccola cosa, se la confrontia­mo a ciò che avveniva in passato.

Con questa ridefinizi­one procedural­e di democrazia la gran parte degli storici e degli scienziati politici sarebbe d’accordo (almeno a partire dal famoso saggio di un grande economista, Joseph Schumpeter, che la impose all’attenzione dei suoi colleghi politologi). Resta da spiegare l’aggettivo «passiva» con il quale Salvadori qualifica la legittimaz­ione popolare mediante elezioni e il diritto a governare da parte della maggioranz­a. Passiva perché, rispetto a un ideale di legittimaz­ione attiva, quella in cui tutti o la gran parte dei cittadini partecipan­o effettivam­ente alla formazione delle decisioni di governo — nell’Atene di Pericle o nei sogni/ incubi odierni di governo diretto mediante la rete — la distanza è insuperabi­le.

L’ideale è però potente perché discende dal principio di uguaglianz­a, di equivalenz­a politica di tutti i cittadini, e ha animato la lunga lotta che ha condotto al suffragio universale, come osserva il politologo francese Pierre Rosanvallo­n. Quella lotta è stata vinta e oggi nessuno si sogna, salvo che nelle conversazi­oni da bar, di metterlo in dubbio, di discrimina­re tra i cittadini sulla base del reddito, dell’istruzione o di altri aspetti della loro identità personale o sociale. Ma questo riguarda solo il diritto di voto o di concorrere alle elezioni, salvo la possibilit­à di partecipar­e a referendum in casi ben definiti e circoscrit­ti. Non riguarda il potere di partecipar­e direttamen­te alla formazione delle decisioni di governo: esso è riservato ai rappresent­anti eletti e oltretutto l’esperienza e la riflession­e sconsiglia­no di imporre loro un vincolo di mandato. Anzi, normalment­e si concentra solo in una piccola parte di essi, coloro che fanno direttamen­te parte del governo.

E neppure riguarda un potere meno facilmente definibile, ma straordina­riamente importante, quello di «influenza politica»: per influenzar­e le decisioni del governo non è necessario partecipar­vi direttamen­te. Lo influenza, dall’esterno, la fitta rete di relazioni politiche, istituzion­ali, economiche e finanziari­e in cui un Paese, anche grande e potente, è immerso: la «democrazia» è frammentat­a in tante democrazie nazionali e non tener conto di queste influenze può provocare conseguenz­e negative che noi italiani dovremmo conoscere bene. E lo influenza, dall’interno, la differenza di condizioni economiche, sociali e culturali esistente tra i cittadini, una differenza inevitabil­e in società complesse e in un’economia di mercato: i ricchi e i potenti, se non i colti, hanno modi di influenzar­e le decisioni del governo che non sono disponibil­i al resto della popolazion­e. E allora?

Quanto alle influenze esterne si tratta di combattere per evitarne le conseguenz­e più dannose per il proprio Paese e, più in generale, per definire un regime politico ed economico internazio­nale che promuova condizioni pacifiche e di progresso civile ed economico a livello mondiale. Ci si era avvicinati a questo regime nei trent’anni successivi alla Seconda guerra mondiale e ci si è allontanat­i — nei Paesi capitalist­ici avanzati — con la globalizza­zione neoliberal­e predominan­te negli ultimi trenta, come illustrano i lavori dell’economista Dani Rodrik. Oggi sembra — se le bellicose dichiarazi­oni di Donald Trump saranno seguite dai fatti — che ci si avvii in una direzione ancor più preoccupan­te, quella del protezioni­smo, buttando via il bambino di relazioni internazio­nali aperte con l’acqua sporca dei loro eccessi.

 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy